venerdì 8 febbraio 2008

Questione di nomi




In Liguria abbiamo un consigliere regionale che si chiama Tirreno Bianchi. È nato negli anni quaranta, si occupa di porto e commerci. È un comunista. Non voglio parlare di lui, non lo conosco, non so chi sia. Mi incuriosisce il nome: Tirreno. Bestiale! Per un ligure, un rivierasco portuale o marinaro, un nome del genere ha un’onorabilità altissima. Il Tirreno ci si para davanti (pure a noi che non siamo portuali) come un limite e una sfida. Sappiamo che nei secoli attraverso quel mare sono giunti perfidi e ottimi stranieri. Sappiamo che attraverso quel mare abbiamo qualcosa in comune col resto del Mediterraneo, ma lo stesso Mediterraneo sembrerebbe presuntuoso, eccessivo, troppo vago e vasto per designare una persona.
Tirreno ci ricorda il lavoro legato al mare. Se parlate di Sargassi, vengono in mente le anguille; se parlate di mari della Sonda vi verranno in mente avventure da romanzo; mar dei Caraibi i pirati, mar Morto il sale, mar Rosso il turismo o, per i più ortodossi, la Bibbia e i suoi racconti.
A me personalmente Tirreno fa venire in mente un rimorchiatore unto e bisunto, piccino, che spinge sbuffando una pertroliera colossale. Tirreno mi fa pensare alle tavole marce che s’inabissano in porto, ai piccoli pescherecci, quasi cabine del telefono su una barchetta stinta. Mi fa pensare ai silos, alle navi cariche di carbone e ai camalli col sacco “in scabuggio”, sulla testa, a camalare corbe di antracite su passerelle malferme. E penso pure alla Compagnia Unica Pippo Rebagliati, che fino a non molti anni fa (non so oggi com’è) aveva, nella sua sede, la foto di Lenin appesa al muro. Colossali, commoventi, onoratissime teste di cazzo nel senso più alto e positivo del termine. Penso alle tante lotte dei portuali, allo “Stoccafisso e bacilli” da comprare direttamente in porto, da quella tale barchetta (di cui ho sentito raccontare) che fino agli anni ’50 girava per i cantieri navali, per le secche e le calate a vendere stocco e fave. Penso a quando andavo a spiaggia da bambino, con mio fratello, amici e vicini di casa, e l’odore del mare ti rimaneva addosso una settimana (o magari ti sembrava di sentirlo).
Per altri versi gente che conta, gente importante, da prendere come riferimento, esempio e way of life ha chiamato il secondogenito, nato pochi mesi fa, con il nome di Oceano. “Povero bimbo!” è stato il mio primo pensiero. Fortunatamente, di famiglia, ha tanti di quei soldi e potere per cui anziché prenderlo per i fondelli gli altri bambini penseranno solo: “Ma perché io non mi chiamo Oceano?”.
I genitori sono un po’ megalomani, non c’è altra spiegazione. Ho cercato articoli di giornale che dessero tutte le spiegazioni del caso, tipo: “Dall’Oceano viene la sempiterna sfida verso l’uomo” oppure: “Valga, questo nome, a spronarlo verso competizioni e certami vieppiù difficoltosi e arditi”. E invece no, dicono (la famiglia) che questo nome è proprio dedicato a un santo della chiesa cattolica, tale Sant’Oceano, martire in Bitinia (Turchia) a Nicomedia. Altro non si sa. Siccome il frugolo è nato il 4 settembre e quel giorno è sant’Oceano, hanno semplicemente messo il nome del santo del giorno, dimostrando di essere rispettosi delle tradizioni. Solo che Sant’Oceano (a cui, sia innalzata un’ode, nessuno ha mai pensato di dedicare non dico una chiesetta, ma manco un altare –finora e da queste parti…-) viene festeggiato il 18 settembre (secondo il sito www.santiebeati.it che ritengo attendibile) e non il 4, in cui si festeggiano, tra gli altri: Bernardo, Bonifacio, Caleterico, Fredardo, Giuseppe, Marcello, Mosè e Scipione Gerolamo.
Ognuno metta i nomi che vuole, ci mancherebbe. Non sono poi queste le faccende che pesano di più. Mi rattrista sapere che molti bambini da oggi saranno chiamati Oceano perché “il figlio di…” è chiamato così. E mi infastidisce anche la necessità di dare spiegazioni, di tentare di rientrare nel solco della sacra tradizione. Oceano è un nome inusuale, curioso, ma, nel solco delle mode new age, dell’estetica totale, è svuotato di ogni senso. La parola “oceano” viene dal greco e significa “immensità”. Ecco dunque un bimbo abituato fin dalla culla ad essere incommensurabile. E poi oceano non vuol dire niente. Quale oceano? Indiano? Atlantico? Pacifico? Ma già, sbaglio: si tratta di un santo non di un mare.
Tirreno era un nome frutto di una ideologia, una controtendenza marcata che apparteneva ad una classe sociale. Chiamo il figlio Tirreno perché voglio allontanarmi dal giogo di un potere che vigila sull’uomo fin dalla culla, gli consegno un nome importante, dignitoso e austero perché si comporti di conseguenza per tutta la vita. Questo nome sbocciava in anni in cui la libertà non era ancora una parola frusta abusata da tutti.
Oceano è un nome di stile, di concetto, di lucida vernice su forme archetipe, di design e made in italy, infine di uno strano tratto di prevaricazione: posso chiamare un bimbo con certi nomi perché io sono un modello e gli altri mi seguiranno.
Mentre mi documentavo per scrivere queste note ho scoperto che la regale coppia aveva già un figlio. Che nome hanno imposto all’erede? Un nome cristianissimo, un nome da papi: Leone. E nessuno pensi alla superbia del re della foresta. Tutt’al più al noto democristiano partenopeo presidente.

lunedì 4 febbraio 2008

Lotta di classe negli anni '50


Antefatto: ho scritto un articolo che ho pubblicato anche qui sul blog. Siccome non sappiamo quando uscirà AVB mi onoro di ospitare l'intervento del Caro Davide Montino, che ha risposto a quell'articolo da par suo.


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Sul numero di dicembre di Alta Val Bormida Alessandro Marenco ha scritto un bell’articolo sulla presunta fine del mondo operaio. Bene ha fatto ad evocare questo tema, a seguito della morte degli operai torinesi, e purtroppo poco tempo fa abbiamo dovuto constatare quanto siano vicine a noi le cosiddette “morti bianche”, con la triste vicenda dell’operaio Giancarlo. Detto questo, sono meno d’accordo quando Marenco dice che “con l’incidente avvenuto a Torino mi sembra di notare che sia cominciato il funerale del mondo operaio”. Il funerale del mondo operaio comincia il 14 ottobre del 1980, con la marcia dei 40.000 quadri e capi che sfilano per chiedere il ritorno al lavoro della Fiat. Sono gli albori del decennio del denaro facile, dell’edonismo sfrenato, della scoperta di un’Italia che non ha nemmeno più la memoria della fatica della Ricostruzione, della guerra, del fascismo. Karl Marx, nel criticare la dialettica hegeliana, scopriva la mistificazione del pensatore di Jena, per cui è più vera l’idea di un oggetto che l’oggetto stesso. E con questo disvelava, ad un tempo, il motore reale del divenire storico – i modi e i rapporti di produzione – e la funzione dell’ideologia dominate, quella sovrastruttura fatta appunto di idee, valori, religioni, paradigmi scientifici che sono il prodotto della struttura materiale che in qualche modo giustifica e difende. Il mondo operaio non è scomparso. L’Italia è piena di operai, di lavoratori dell’industria più o meno pesante; essi sono una leva dell’economia anche di fronte ai processi di deindustrializzazione attualmente imperanti. Ma soprattutto sono figli di una cultura che è stata un elemento costitutivo della modernità. Ed è su questo piano che dagli anni Ottanta è stata mossa una guerra contro l’idea stessa del lavoro proletario. La classe operaia, che esprimeva una sua identità forte, andava poco a poco allontanata dalla scena dell’immaginario collettivo. Un’identità fatta delle lotte per l’emancipazione dei lavoratori, di biblioteche ed università popolari, di società di mutuo soccorso, di diritti e dignità sul lavoro, protezioni e sicurezza, rispetto della fatica. Un’identità che ha espresso valori differenti rispetto a quelli della società borghese, valori come la solidarietà e la giustizia, che ha dato voce agli oppressi, ai ceti subalterni, che ha provato a definire un modello diverso di società di massa, dove le moltitudini sono composte da individui consapevoli e non da corpi che vanno omologati. Nell’attuale modello culturale non c’è posto per il lavoro, ed in questo dice bene Marenco, ma solo per l’illusione della ricchezza. La società del consumo, del terziario avanzato, non sa riconoscere la fatica, e vive l’impegno e lo sforzo come un degrado. E chi lavora? Forse oggi, tutto sommato, i livelli più alti di alienazione sono proprio tra commessi e segretarie, impiegati e piccoli funzionari. Chi sta in fabbrica resiste, sempre più solo, e deve chiudere nell’armadietto, nello spogliatoio, la tuta blu, perché altrimenti rischia di farsi riconoscere, come raccomandavano certi libri di scuola degli anni Cinquanta.
E veniamo alla Val Bormida. Terra di fabbriche da più di cento anni, siamo in gran parte figli di operai prima ancora che di contadini, ma abbiamo fatto davvero in fretta a dimenticarcene. Tutto il sapere tecnico, l’appartenenza, lo sforzo che ha rappresentano la fabbrica che fine ha fatto? Eppure i nostri padri, in gran parte, hanno passato turni e turni attaccati alle macchine, alle presse e ai torni anche per dare una dignità maggiore ai figli. Ora si buttano giù gli antichi muri dei reparti, si stende una mano di colore agreste, si fa qualche celebrazione in forma di mostra, e ci si butta alla riscoperta del territorio senza avere coscienza che questo territorio è (e fu) fatto di uomini, del loro lavoro, dello sfruttamento capitalistico che proprio qui in Valle dovremmo aver conosciuto con il suo nome, senza mezzi termini. Tra il 14 novembre 1952 e il 2 febbraio 1953 operai occupavano la SICED, in Ferrania, per opporsi alla chiusura della loro ditta e al licenziamento di 230 lavoratori, e lì trascorrevano il Natale, che così ricorda nel suo Diario Mario Giannotti, testimone attento di quei giorni: “Giorno di Natale. Quella paglia che duemila anni fa aveva accolto il fanciulletto di Nazareth, questa notte aveva accolto i lavoratori della SICED. Questa notte ognuno si girava nel suo giaciglio, non prendendo sonno, tutti avevano voglia di raccontare. Ogni tanto vedevamo un compagno che spingeva lontano da sé la coperta o la mantella, faceva ponte con le ginocchia, si abbracciava le gambe e raccontava una sua avventura, mentre tutti gli altri facevano capoccella da sotto le coperte” (Diario di lotta. Testimonianze di lotta durante l’occupazione della SICED, Arti Grafiche, Cairo M.te, 2000, p. 78). Sembra passata un’enormità di tempo, tanto più oggi dove tutto si brucia in un attimo. Eppure, la nostra storia è fatta anche di questo conflitto di classe, che è stato parte – sia in modo consapevole che meno – della vicenda industriale delle nostra Valle. Ricordare la lotta della SICED significa, in questo contesto di oblio del mondo operaio, ricordare il coraggio di opporsi in virtù di una propria identità, ma soprattutto significa porre al centro la questione di un’appartenenza e di un orgoglio che fa stare insieme, uniti di fronte ai processi di sfruttamento e di straniamento attuali. Ricordare quella vicenda vuol dire ripensare a quello che siamo stati, alla storia delle nostre famiglie, ai mezzadri sfruttati dai fattori prima ancora che dai signori, agli operai che al mattino prendevano le corriere o andavo per chilometri in bicicletta, e che combattevano per avere uno spazio per il pranzo, un posto dove scaldare il cibo di casa. Significa, anche, recuperare la memoria di una cultura che è nata nelle fabbriche e che ha costruito anche la storia di questo paese malandato, che ha parlato un linguaggio proprio che oggi si sta perdendo, che ha maturato competenze artigiane pregiate che ora si svendono, che ha saputo immaginare un’utopia per tutti che sapesse di libertà ed equità. Perché è vero che gli uomini non sono tutti uguali. Nascono diversi perché diversa è l’articolazione interna di ogni società. Ma possono cambiare la loro condizione, senza rinnegare chi sono, ma con l’orgoglio di quello che fanno. Così, mi piace chiudere con un’altra citazione dal Diario di Giannotti, che rende appieno quel senso di libertà, responsabilità e fiducia che non è detto si debba per forza perdere: “un’altra giornata di lotta. Si deve lottare perfino contro il freddo e ogni sorta di malanni, come il raffreddore, la tosse, la febbre. Nonostante queste condizioni avverse la nostra bandiera di lotta sventola ancora alta, una lotta condotta con serietà, con volontà e con spirito di sacrificio” (Diario di lotta, cit., p. 95). Era sabato 10 gennaio 1953.

Davide Montino