giovedì 27 dicembre 2007

Il funerale del mondo operaio

A Torino sono morti bruciati alcuni operai. Altri sono gravi all’ospedale. Ora quella fabbrica è chiusa e ferma in attesa delle indagini.
Prima sorpresa: ci sono ancora gli operai. Si, perché ci eravamo quasi convinti che l’economia girasse solo più grazie al terziario, al terziario avanzato, al turismo, al commercio, alla produzione ecologica e sostenibile di prodotti del territorio, di consulenze, di corsi e di convegni. E invece no, c’è ancora l’industria, è pesante, è dura e puzzolente, la gente ci lavora, ogni tanto si fa male, più raramente (comunque troppo) ci muore.
Marco Paolini era stato in televisione qualche tempo fa con uno spettacolo indimenticabile: la cronaca della tragedia del Vajont. Tra le altre bellissime cose che questo artista aveva detto dal palco, c’è stata anche un’affermazione riguardante la descrizione del disastro di Longarone, Erto e Casso come una sorta di funerale del mondo contadino e montanaro, che non serviva più a nessuno, che stava diventando anacronistico rispetto alla grande espansione industriale dell’Italia degli anni sessanta. Aveva ragione Paolini, lo abbiamo visto anche noi in Valle Bormida: negli anni sessanta assistitemmo alla fine di un declino cominiciato decenni prima. Quarant’anni fa scomparivano gli ultimi contadini propriamente detti, gli ultimi che ragionavano da contadini, che mangiavano da contadini, che morivano da contadini. Le cascine si sono svuotate piano piano e talvolta sono lentamente crollate. Era inevitabile che le cose andassero così: il tempo passa e la società cambia. Non si può pensare di obbligare un certo numero di persone a nutrirsi sono di polenta, castagne e latte; di scaldarsi solo con una stufa, di lavarsi in un catino. Eppure siamo/sono stati affrettati a fare quel funerale a cui faceva riferimento Paolini, tant’è vero che oggi si “riscoprono” sapori, usanze, consuetudini. Si sente parlare della bella vita di campagna (evidentemente da chi non l’ha conosciuta…) e si ricercano prodotti “tipici”, coltivati o allevati con metodi “naturali”, “all’antica”, “secondo l’usanza dei nostri vecchi”. Mi pare che ci si sia troppo affrettati a seppellire chi non era ancora morto, e ora ci ritorni lo spettro di tutto quello che abbiamo perduto sotto forma di ritualità e immagini che ci piacciono, ma che sono totalmente vuote di valore e di peso morale e culturale. In realtà, quello che abbiamo seppellito, non è tanto il mondo contadino ma il bagaglio di competenze, il sapere e il modo di affrontare la vita che poteva tornare utile: la solidarietà tra vicini e l’ospitalità con gli stranieri; il non sprecare la roba anche in abbondanza; il non dipendere da altri; il decoro e dignità cercati al di là degli oggetti che si possiedono; il saper raccontare, recitare e cantare per il piacere di farlo; il saper costruire gli utensili che ci servono; il non contrarre debito a meno che non sia indispensabile. Ma quante cose ancora ci vengono in mente a pensarci bene? Tutta quella esperienza empirica (che poteva e doveva essere aggiornata e migliorata) è stata sepolta e dimenticata. Al suo posto abbiamo lo splendore, la bellezza come valore quasi assoluto, la necessità di apparire, l’incapacità a risolvere i propri problemi manifestata come un pregio, la dipendenza dagli altri, dalle istituzioni, dalle finanziarie per ogni piccola cosa; la salute perfetta ed integrale; l’introspezione fino all’egoismo; la diffidenza o la paura degli altri. Non è sempre e tutto così, diciamo che questa è la direzione sulla quale ci siamo incamminati.
Con l’incidente avvenuto a Torino mi sembra di notare che sia cominciato il funerale del mondo operaio. È una mia impressione da inesperto, da incompetente. Sembra che non ci sia più dignità nel lavoro, che non si possa essere fieri del proprio lavoro, anche se da metalmeccanico, da chimico o da manifatturiero. Il precariato, le politiche economiche complesse di alcune multinazionali, che preferiscono lasciare alla deriva gli impianti piuttosto che chiuderli, i modelli sfavillanti dei media, così lontani da quello che realmente è il mercato del lavoro, hanno finito per sfiduciare molti operai, per togliere loro il gusto di lavorare bene, di lottare per i loro diritti, per partecipare alla vita comune.
Il problema è che, come per il caso del mondo contadino, si finisca per seppellire quello che la cultura operaia industriale è stata capace di formare negli anni, mutuandola in parte dal mondo contadino e in parte creandola ex novo: dico il rispetto per chi lavora sotto forma di soldi o di agevolazioni maggiori, il rispetto del riposo dell’operaio turnista («Silenzio! C’è il papà di xxxx che ha fatto la notte!» mi dicevano da bambino se facevo troppo chiasso nel condominio), la retorica, ebbene si, perfino la retorica che si trovava in alcuni libri di scuola elementare, che ritraeva il lavoratore quasi come un eroe, un esempio da imitare; le idee nuove, come lo scoprire che la differenza tra gli uomini spesso è legata allo stato patrimoniale, più che al colore della pelle o all’accento della parlata. In conclusione vorrei dire che se a noi, in Valle Bormida, ci cancellano il patrimonio culturale contadino e il patrimonio culturale operaio, forse, ma forse, non ci resta proprio più niente, se non i vuoti cerimoniali quasi sacri alla (finta) memoria del contadino o dell’operaio.
(Courtesy AVB dec. 2007)

domenica 16 dicembre 2007

Perchè non credo al laminatoio


Qualche mese fa la provincia (o altro ente locale) ha stanziato un milione di euro per il tratto di strada che congiunge il “Ponte della Volta” con lo stabilimento. Spesa: 1 milione di euro.
Qualche mese fa gli in prenditori hanno detto che sono disposti a spendere 350-400 milioni di euro nel laminatoio, di creare 300 posti di lavoro diretto e altrettanto d’indotto. Sono disposti SE lo Stato onora gli impegni presi e (tra l’altro) fornisce la strada di collegamento tra PdV e stabilimento.

Facendo la debita proporzione è come se un cuoco dicesse: il sono pronto a far da mangiare per un banchetto da 200 persone, ma fin che non arrivano gli stuzzicadenti io non parto.

È così: finchè non saranno finiti svincoli, ponti e gallerie, finchè non ci saranno le varie “piattaforme” operative non sapremo che fine farà lo stabilimento.

Aspetto ora i quotidiani locali, vediamo cosa riescono a dire, a farci capire…

venerdì 7 dicembre 2007

Io non ci volevo... II parte.

Foto: ho visto la luce!!!

Comunque arriviamo al punto: la questione è che la “missione”, ovunque si faccia, prevede allegata in omaggio la “buona novella”. Se uno va in Africa (ma anche se resta qui) insieme a quello che fa per “loro” è ovvio e scontato che debba diffondere la “buona novella”. Nessuno parla di conversione, nessuno parla di primato del cristianesimo romano cattolico, ma si capisce benissimo.
Alcune professoresse intervengono per parlare di massimi sistemi: si conoscono tra loro e fanno una specie di gara per stabilire chi la sa più lunga. Uno degli interventi propone un dilemma: noi (loro) siamo il tramite tra la verità e gli ignoranti. Siamo degne di questo compito? Nessuno ha azzardato una risposta.
Nessun altro vuole intervenitre? Parla allora Filippo Neri. I giovani non vengono a messa perché sono i genitori a non accompagnarli. In ogni caso chi si avvicina e sente il messaggio, anche se poi nell’adolescenza se ne allontana, prima o poi ritorna. Poi cita una mail anonima arrivata a lui, lo avvisano che a Millesimo c’è un sexy shop, dice l’anonimo che bisogna fare qualcosa per chiudelo. Filippo risponde che addirittura l’hanno invitato ad andare a benedirlo!! (indignazione tra le signore composte). Io mi chiedo perché no? Oppure l’ XI dice: “non userai falli di plastica” ? Mah! O magari si, ma solo a fini riproduttivi.
Comunque Filippo dice che se la gente non ci andasse lui chiuderebbe, il lavoro da fare (ne consegue) è sulla evangelizzazione del popolo e non sulla chiusura di esercizi commerciali (anche perché, con lo stesso principio, si dovrebbero chiudere rosticcerie, gelaterie, negozi di armi, ma, a pensarci bene, anche frutta e verdura…).
Breve giro di presentazione dei vari gruppi di volontariato, risolini d’imbarazzo. Alcune raccolgono tappi di plastica. Altri le lattine. C’è un gruppo che appena cominciato e si occupa dei bambini di strada in Brasile: hanno un pieghevole bellissimo. Raccolgono soldi e li mandano all’associazione clericale di Mondovì. Quando viene il turno della nostra associazione la segretaria del gruppo con il quale collaboro saltuariamente sciorina quieta tutti gli interventi, le iniziative, i progetti: scuole, adozioni a distanza, viaggi in Africa per contatti sul posto. Tutti allibiti: altri che tappi di plastica! Guardo gli altri del direttivo dietro di me che sorridono tutti sornioni e soddisfatti…
C’è qualcosa questa sera che mi pizzica dentro, ci penso meglio e noto le signore professoresse filo-di-perle, maglioncino, occhiale, figlie a loro volta di professoresse o maestre o mugnai o capiturno in fabbrica. Loro possiedono le parole e i concetti da esprimere. Invece quella signora lì, quella vicino, basta vedere come tiene il foglio che le hanno dato: è un foglio con sopra delle parole pure difficili da capire e l’hanno dato in mano a lei. E lei ne è orgogliosa. Tiene il foglio tra le dita, senza piegarlo, lo guarda con l’occhio presbite (mannaggia, gli occhiali a casa) e le mani raccontano di lavori donneschi, di campagna, di orto. Raccontano di tagliatelle e, forse, di ravioli. Raccontano forse anche di colli di galline spezzati, di spiumaggio, bollitura, condimenti. Alla fine si guarda un po’ di tivì e si va a letto a dire un rosario, a mandare un bacio alla Madonna, che vegli su questo e su quest’altro. E penso che la professoressa sarà sempre in prima fila a parlare e spiegare le cose, e quest’altra, quella che tiene il foglio come sacro, sarà chiamata per fare pulizie, per portare, per accompagnare, per scaricare: non sa parlare, che lavori allora. E a me veniva in mente una lettera di don Lorenzo Milani, nella quale si dice: “I signori ai poveri possono dare una cosa sola: la lingua, cioè il mezzo d’espressione. Lo sanno da sé i poveri cosa dovranno dire quando sapranno scrivere” (e parlare, dico io). E penso anche a Pasolini, ma senza cercare citazioni: solo l’immagine di quella faccia corrosa.
E invece la storia è sempre la stessa: c’è un foglio scritto, viene da un gesuita francese. “Leggetelo voi” dice il prete. E lo legge una professoressa. Ad ogni capoverso il prete ferma e ci spiega cosa c’è scritto. Ma è mai possibile? Se è scritto in una lingua comprensibile non ho bisogno di mediatori, se è incomprensibile l’errore è del teologo non ecumenico. Come si capiscono i protestanti, da questa posizione!
In ogni caso serpeggia la convinzione che la morale cattolica è la morale tout-court, che se non sei cattolico sei amorale e quindi non puoi fare nulla di buono.

giovedì 6 dicembre 2007

Io non ci volevo venire... (I parte)

Sono arrivato che la riunione era già cominciata. La sala quadrata e ampia era stipata di signore sedute contro il muro. Ad una estremità una cattedra, dietro la quale due signori avanti con gli anni osservavano il ritardatario con malcelato disprezzo. Venivo fornito di foglietto scritto fitto, un documento, una stampa in grande serie, professionale, dal titolo: “Per una pastorale della pro-creazione”.

L’aria è caldissima, gravida di aromi di minestrone e di cagliata, di settimana enigmistica e candela appena spenta. Le signore tutte intorno si suddividono in due gruppi principali: il primo (e più cospicuo) chiameremo delle ex professoresse, il secondo (più rado e dimesso) delle casalinghe di paese. Tutte comunque vertono sulla sessantina. C’è pure una suora: la si riconosce perché, per motivi incomprensibili, tutte queste vestono dimesso, largo, grigio, con calze spesse e scarpe scure di stoffa, e più ancora perché si fanno scarmigliare i capelli in malomodo, dopo averli fatti tagliare a un qualche sconsiderato incapace. Questa in particolare è magrissima, nervosa, iperattiva. Ha mani lunghissime da pianista mancata. Eppure fini, dalla delicata pelle diafana.

Evidentemente i due dietro la cattedra sono sacerdoti. Uno grigio, aria triste e capelli lunghi e unti. Sguardo ascetico di chi ha visto cose che non può nominare. L’altro sornione, sorridente. Ordinato, degno, ancorato solidamente a terra, diresti vedendolo. Uno è sant’Ignazio, l’altro è san Filippo Neri.

La serata era stata proposta come un’occasione per fare incontrare le associazioni di volontariato della Valle Bormida.

Si comincia con la lettura (“Chi vuole leggere? Chi se la sente?”) di questo “ciclostile” inviato da non si sa chi, stampato da non si sa chi, scritto, a quanto pare, da un gesuita teologo, un luminare. Il documento parla delle crisi del cristianesimo, del fatto che questa può diventare un’occasione per ricostruirla, per riconfigurarla, come la mappatura di una centralina elettronica? come un computer? Per conto mio noto subito una certa povertà di linguaggio, una bassezza di metafore, una piattezza di argomentazioni che denotano, da parte di un teologo gesuita, la convinzione profonda di avere sempre e comunque a che fare con degli stolti. Evangelizzare in una società secolarizzata, ecco un altro tema forte. Ma dove vorrà arrivare? Penso io. Bestiale: cita questa parabola? Metafora? Non saprei: Nel 99 in Francia si abbattè l’uragano Lothar, 300 milioni di alberi furono abbattuti. Gli ingegneri forestali prepararono un piano di rimboschimento ma scoprirono che il bosco aveva già ricominciato a generarsi naturalmente, manifestando una “migliore biodiversità” (… le parole sono importanti ndr).

“Anche la Chiesa” continua il documento, “ha conosciuto da 40 un uragano. Il paesaggio religioso è devastato…”. Quarant’anni fa cos’è successo nella chiesa? Dunque: 2007 – 40 = 1967. Direi il Concilio Vaticano II, quello che ha introdotto la messa in italiano, che ha cercato di aprire la strada al dialogo tra religiosi e quello che ha fatto nascere nella chiesa l’esigenza di adeguare la dottrina ai tempi. Quello un uragano? Mah! Io credevo che fossero passi avanti…

Comunque la lettura (da parte di una ex professoressa impettita, occhiale raffinato, collanina d’oro sopra il maglioncino morbido) viene spesso interrotta di Ignazio di Loyola che chiosa, esplica, chiarifica. Alla lettura si alternano le professoresse. Le cattoliche si riconoscono perché quando sono in presenza di un prete non accavallano mai le gambe, neanche se hanno i pantaloni. Ginocchia unite, mani conserte. Ferme. Magari a casa, a scuola, nella vita di tutti i giorni no. Ecco a che punti il condizionamento.

La lettura prosegue con la “Piccola grammatica per una pastorale della pro-creazione” (a me i giochi di parole puzzano di bruciaticcio lontano un miglio…).

Ignazio di Loyola continua a porre questioni massime: come mai ci sono sempre meno fedeli, come mai i giovani preferiscono andare al bar, bere, incontrare amici e ragazze di facili costumi, ridere e parlare dei loro problemi piuttosto che venire qui a sentire questo odore, questa aria viziata e parlare della fede e delle questioni pastorali in cui il nuovo millennio propone davanti all’uomo come creatura di Dio nel contesto di una religione vissuta come atto d’amore quotidiano, un darsi che è un prendersi, un prendersi che è un darsi e così via… Lo stesso Ignazio segnala come sia buono che i giovani abbiano fatto rinascere ad esempio la tradizione del cantare le uova, ecco, dice, quando si attraversano momenti difficili in cui rischiamo di perdere le nostre origini, riscoprire le proprie tradizioni è senz’altro un’ottima cosa. E a me viene in mente Guzzanti, il suo finto “spot” in cui diceva, più o meno: non sai chi sei? Non sai da dove vieni? Allora, dai! Mettiti dei buffi costumi e rispolvera le antiche stupide tradizioni! Quando si balla il saltapicchio? Dove si balla il manfrinotto?