Prima sorpresa: ci sono ancora gli operai. Si, perché ci eravamo quasi convinti che l’economia girasse solo più grazie al terziario, al terziario avanzato, al turismo, al commercio, alla produzione ecologica e sostenibile di prodotti del territorio, di consulenze, di corsi e di convegni. E invece no, c’è ancora l’industria, è pesante, è dura e puzzolente, la gente ci lavora, ogni tanto si fa male, più raramente (comunque troppo) ci muore.
Marco Paolini era stato in televisione qualche tempo fa con uno spettacolo indimenticabile: la cronaca della tragedia del Vajont. Tra le altre bellissime cose che questo artista aveva detto dal palco, c’è stata anche un’affermazione riguardante la descrizione del disastro di Longarone, Erto e Casso come una sorta di funerale del mondo contadino e montanaro, che non serviva più a nessuno, che stava diventando anacronistico rispetto alla grande espansione industriale dell’Italia degli anni sessanta. Aveva ragione Paolini, lo abbiamo visto anche noi in Valle Bormida: negli anni sessanta assistitemmo alla fine di un declino cominiciato decenni prima. Quarant’anni fa scomparivano gli ultimi contadini propriamente detti, gli ultimi che ragionavano da contadini, che mangiavano da contadini, che morivano da contadini. Le cascine si sono svuotate piano piano e talvolta sono lentamente crollate. Era inevitabile che le cose andassero così: il tempo passa e la società cambia. Non si può pensare di obbligare un certo numero di persone a nutrirsi sono di polenta, castagne e latte; di scaldarsi solo con una stufa, di lavarsi in un catino. Eppure siamo/sono stati affrettati a fare quel funerale a cui faceva riferimento Paolini, tant’è vero che oggi si “riscoprono” sapori, usanze, consuetudini. Si sente parlare della bella vita di campagna (evidentemente da chi non l’ha conosciuta…) e si ricercano prodotti “tipici”, coltivati o allevati con metodi “naturali”, “all’antica”, “secondo l’usanza dei nostri vecchi”. Mi pare che ci si sia troppo affrettati a seppellire chi non era ancora morto, e ora ci ritorni lo spettro di tutto quello che abbiamo perduto sotto forma di ritualità e immagini che ci piacciono, ma che sono totalmente vuote di valore e di peso morale e culturale. In realtà, quello che abbiamo seppellito, non è tanto il mondo contadino ma il bagaglio di competenze, il sapere e il modo di affrontare la vita che poteva tornare utile: la solidarietà tra vicini e l’ospitalità con gli stranieri; il non sprecare la roba anche in abbondanza; il non dipendere da altri; il decoro e dignità cercati al di là degli oggetti che si possiedono; il saper raccontare, recitare e cantare per il piacere di farlo; il saper costruire gli utensili che ci servono; il non contrarre debito a meno che non sia indispensabile. Ma quante cose ancora ci vengono in mente a pensarci bene? Tutta quella esperienza empirica (che poteva e doveva essere aggiornata e migliorata) è stata sepolta e dimenticata. Al suo posto abbiamo lo splendore, la bellezza come valore quasi assoluto, la necessità di apparire, l’incapacità a risolvere i propri problemi manifestata come un pregio, la dipendenza dagli altri, dalle istituzioni, dalle finanziarie per ogni piccola cosa; la salute perfetta ed integrale; l’introspezione fino all’egoismo; la diffidenza o la paura degli altri. Non è sempre e tutto così, diciamo che questa è la direzione sulla quale ci siamo incamminati.
Con l’incidente avvenuto a Torino mi sembra di notare che sia cominciato il funerale del mondo operaio. È una mia impressione da inesperto, da incompetente. Sembra che non ci sia più dignità nel lavoro, che non si possa essere fieri del proprio lavoro, anche se da metalmeccanico, da chimico o da manifatturiero. Il precariato, le politiche economiche complesse di alcune multinazionali, che preferiscono lasciare alla deriva gli impianti piuttosto che chiuderli, i modelli sfavillanti dei media, così lontani da quello che realmente è il mercato del lavoro, hanno finito per sfiduciare molti operai, per togliere loro il gusto di lavorare bene, di lottare per i loro diritti, per partecipare alla vita comune.
Il problema è che, come per il caso del mondo contadino, si finisca per seppellire quello che la cultura operaia industriale è stata capace di formare negli anni, mutuandola in parte dal mondo contadino e in parte creandola ex novo: dico il rispetto per chi lavora sotto forma di soldi o di agevolazioni maggiori, il rispetto del riposo dell’operaio turnista («Silenzio! C’è il papà di xxxx che ha fatto la notte!» mi dicevano da bambino se facevo troppo chiasso nel condominio), la retorica, ebbene si, perfino la retorica che si trovava in alcuni libri di scuola elementare, che ritraeva il lavoratore quasi come un eroe, un esempio da imitare; le idee nuove, come lo scoprire che la differenza tra gli uomini spesso è legata allo stato patrimoniale, più che al colore della pelle o all’accento della parlata. In conclusione vorrei dire che se a noi, in Valle Bormida, ci cancellano il patrimonio culturale contadino e il patrimonio culturale operaio, forse, ma forse, non ci resta proprio più niente, se non i vuoti cerimoniali quasi sacri alla (finta) memoria del contadino o dell’operaio.