lunedì 25 aprile 2011

Riviera Ligure. E ho detto tutto...


Ho fatto quattro passi in un paese della Riviera Ligure. Per tutto il tempo mi sono chiesto come può, un paese del genere, pensare al turismo come una risorsa. A parte il piccolo centro storico scarso di negozi, ingombro di ristoranti maleodoranti, di fioriere piene di arbusti rinsecchiti, c’è una larga cintura residenziale anni settanta, in cui ogni tanto spunta qualche palazzaccio orribile (dove gli altri sono solamente banalissimi condomini). Come in ogni paese d’Italia c’è un architetto o un artista o un ingegnere parente di un potente che imperversa liberamente (forse sono più d’uno). La passeggiata a mare è in realtà una passeggiata su un viale trafficato e rumoroso, essendo il mare completamente chiuso alla vista da cabine e altri ordigni balneari. Tutto suggerisce che qui ci si viene solo per essere alleggeriti. Ti diverti? Pazienza. Non ti diverti? Fatti tuoi, potevi andare da un’altra parte. Esisterebbe, in questo paese, una certa tradizione artigiana di tutto rispetto, ma sembra che non ci siano più operatori del settore, essendo divenuti tutti artisti. Come tali hanno un brutto carattere e prezzi orripilanti. Immagino che per puntare su un settore artigianale ed artistico occorra puntare su questo con perizia e capacità, sapendo cogliere le novità effettive sul mercato, dando respiro e rilevanza alle capacità organizzative, manuali, pratiche degli artigiani, ma anche alle potenzialità artistiche nel contesto dell’arte mondiale. Costa soldi, costa impegno, costa fatica. Né i politici, né gli operatori del settore sembra che facciano tutto questo. Si vive con quel passa il convento (pardon, il torinese e il milanese) che però non faticherà poi troppo a trovare decine di posti (restando in Italia) dove sia accolto in maniera commisurata ai denari che spende.
Entro in un bar. La cassiera, una donna cospicua e accaldata, mi guarda senza fiatare. “Un caffè”, le dico, ed estraggo dal portafoglio quel che ho: 20 euro. “Eh belin, ma oggi tutti con 20 euro?”. Chiedo scusa, rovisto ma non trovo. Alla fine mi dà il resto lo stesso. Al banco la barista giovane e gentile mi serve. La cassiera s’è alzata e chiede ad un cameriere: “L’hanno mangiato l’agnello?” (il bar è anche ristorante). Non sento la risposta del cameriere. La cassiera comunica: “Mettilo via nei vassoi che…(incomprensibile)”.
Credevo fosse una leggenda, invece è vero: il turista in Riviera è (spesso) ingombrante, fastidioso. Dà fastidio al ristoratore, barista, commerciante, politico, funzionario… I quali certamente pensano: “Qui siamo in Riviera, ragazzo! Poche storie! O torta di riso, o prendersela nel K. Ah! E la torta di riso è finita…”
A pochi chilometri c’è una cittadina. Qualche anno fa hanno sventrato completamente un quartiere antico come il porto, bruciato un bellissimo brigantino alato fra le case, imposto vetri verdognoli, alluminio e acciaio. È il “terminal”, parola che dona un fascino cosmopolita all’intera città. Mi vengono da dire un paio di cose: ambiente artificiale, asettico, pulito e sterile come una camera mortuaria. Spazi male utilizzati, settori (fortunatamente) lasciati com’erano (e curiosamente recintati, come fosse un lazzaretto…). Un paio di negozietti per turisti. Lunghe gallerie buie (“Del buon vento”) che fanno passar la voglia e grandi vetrate che prima o poi saranno troppo sporche, e che costerà sempre troppo far pulire. Un idea: e se invece di distruggere e ricostruire cose innovative (che poi durano poco e costano un sacco di soldi) provassimo a recuperare quel che c’è? Magari ci sono cose belle e caratteristiche che valorizzate potrebbero essere accoglienti, calde, indimenticabili. Più di una struttura anonima che potrebbe trovarsi a Sidney, Malibù o Helsinki… A ma noi qui siamo in Riviera, non abbiamo bisogno di renderci indimenticabili: lo siamo già…

mercoledì 13 aprile 2011

Onore e memoria


Le parole sono importanti. Ne avevamo parlato proprio con Davide. Aveva visto il film di e con Moretti "Palombella rossa". C'è una scena (divertentissima) in cui una giornalista intervista il protagonista Michele, dicendo una quantità di luoghi comuni e usando parole "trendy". Michele accusa dolore fisico, alla fine reagisce urlando, schiaffeggiando l'intervistata ("Come parlaaa! Chi parla male pensa male!").
Questa scena era stata vista e commentata da Davide con un certo interesse. Si comincia proprio dalle parole, dalla scelta delle parole. Poi si prosegue con una certa superficialità, oppure con sicumera. Siamo tutti esperti di tutto. Abbiamo tutti diritto di parola su tutto. E invece non è vero: i diritti si conquistano, come la cultura, la conoscenza. Il diritto non è innato con l'uomo.
Un giornalista ha parlato del premio alla tesi di laurea in Storia della scuola che stiamo formalizzando in questi giorni. Ha scritto, nel titolo:"Premio in onore di...". Niente di male, per carità. Ma la parola "onore" suona male nel contesto di Davide. Non che non sia onorevole, ma "onore" e "orgoglio" sono termini che Davide avrebbe lasciato volentieri ad altre radici politiche ed etiche.
Davide non era "orgoglioso", ma più semplicemente 'consapevole', serenamente certo del suo compito, del suo mestiere, della sua preparazione, della sua vocazione (se vogliamo), tutto quanto come frutto di un progetto di vita, di un processo, fatto di impegno e dedizione.
Il lavoro di storico consiste proprio nel dovere di individuare le differenze, anche piccole. Di studiare le particole che fanno la differenza. Agli altri il giudizio, a tutti. Ma le differenze contano. Eccome.