
Il treno, come lo conoscevo io, non c’è più. Prenoti su internet, carrozza e posto, vicino o meno al finestrino. Silenzio e quasi lusso. Uno si stupisce perfino. Si dice: ma come, tutti che si lamentano di questi treni… e invece aria condizionata, personale “di bordo” (una volta era “personale viaggiante”) gentile, display colorati, tavolinetti… Il viaggio non è lungo, ma la pianura Padana è noiosa. Non è difficile scambiare rari sorrisi e brevi parole con i compagni di viaggio. Giungo a Milano sereno e riappacificato con le ferrovie, mi dico convinto che anche mio padre ferroviere sarebbe contento. Milano centrale me la ricordo bene. Non è cambiata, colossale monumento celebrativo della grandezza della rotaia fassista… Cambio e prendo frecciablu o bianca per Verona. Treno di lusso pure questo. Ma che bello, penso… Comodo e fresco. Anche qui persone gentili e sorridenti. Si chiacchiera persino un po’. Arrivo a Verona: un caldo soffocante. Cambio e prendo un interregionale per Bressanone. Il treno è sporco. Direi sudicio. Ma perlomeno è fresco. Poi il treno parte e si spegne il condizionamento. Finestrini chiusi. Asfissia. Gli altri viaggiatori sono sconvolti. Pure non è difficile sorridere e dire alcune parole di circostanza, scherzare (per inciso: ma non è che in Liguria e in Val Bormida in particolare, siamo tutti musoni fuori luogo? Mah, è un’impressione neh!).
Arrivo a Brixen stremato. Direzione chiara in testa, a piedi, che uno si guarda il paesaggio (bello, come tutto il sud Tirolo è). Prima mi accredito al simposio, all’università. C’è l’apertura in corso: politici, bambini coi flauti e chitarrine, vegliardi all’ascolto. Le inaugurazioni si somigliano. Però c’è un buffet particolarmente interessante con strudel e altre cose lussuriose. Dice il referente che però è meglio se prima vado in albergo. In effetti… Sono al “seminario minore”. Il referente dice che non sa dove sia: mai sentito. Bene. Chiedo ad un altro, il nome corrente è “Vinzentinum”, così è conosciuto il “Seminario Minore”, me lo dice un marocchino, parrebbe esperto del posto.
Il “Vinzentinum” mi fa venire in mente “Canone inverso” di Maurensig: è un edificio massiccio e non privo di grazia, ma sobrio, come si addice ad un seminario. Pianta quadrata, 4 piani costruiti sul finire dell’Ottocento. Bellissimo giardino ricolmo di fiori misconosciuti, laghetto con ninfee, ponticello…
Il portiere sembra un po’ stordito, emozionato. È un giovanotto un po’ stazzonato, ma pulito e gentile. Mi registra e mi accompagna nella mia camera. Corridoi ampi e lustri, mi par proprio d’essere tornato in collegio. La mia è la 54, la chiave apre il pesante portone d’accesso e la doppia porta della mia camera (che a questo punto mi piace chiamare “cella”). Ma la chiave non apre. Imbarazzo del portiere. “Skusa” dice e scappa verso la guardiola. Torna con altra chiave, di cui mi mostra, sorridente, il numerino sul portachiavi: 54. “È kvella ciusta!” Esclama felice. Ma no, non è giusta… Panico. Tre passi indietro, esterrefatto. Si avvicina alla porta di fondo e bussa delicatamente. Dice qualche parola a bassa voce. Spunta di là una suorina col capo bendato, come usava tanto tempo fa. La suorina è secca, minuta, seria e cordiale. Mi misura dalla testa ai piedi e poi modula i muscoli del viso in una cosa prossima al sorriso, emette un “morgen”, a cui rispondo convenientemente con “morgen”. Fruga tra le stoffe dell’abito e trova una chiave, immagino un passepartout. Apre la porta in scioltezza. Scompare tornando da dove è venuta.
Dopo il riassetto esco a caccia di roba mangiativa, possibilmente ipercalorica. Procedo con per le strade sudtirolesi con la consumata sicumera del valbormidese in gita che, come noto, non si perde neanche nel labirinto di Cnosso. Vedo il campanile del duomo, da lontano. Non è difficile. Guardo intorno il bel paesaggio naturale e umano. Nascono anche qui, però, le brutte case moderne di cemento. Non tante come i nostri imprenditori vorrebbero, ma anche qui si vedono delle discrete schifezze. Noto la quantità di biciclette e di piste ciclabili e di parcheggi per bici. Noto i parcheggi per auto FUORI dal centro storico. Noto i percorsi pedonali, le aree di raccolta rifiuti differenziata con anche la botticella dell’umido, come le atre foderata di legno. Noto la ricchezza degli alberi lungo l’Isarco: frassini, olmi, aceri e querce… Poche gaggie da noi così invadenti. Ricchezza del territorio vuol dire anche questo: che la natura stessa è varia e composta, ricca perché può ospitare tutto. Quel che si dice biodiversità.
Un difetto grande di questi luoghi è la rapidità con cui la pro loco (o altro ente assimilato) cambia la disposizione del paesaggio. Cammini sicuro che il centro è là, e di colpo ti trovi in periferia. Non si vede più il campanile, non si vede più il centro storico. Strano però: nonostante sia periferia continuano i parchi pubblici, le piste ciclabili, le aree di raccolta differenziata… C’è pieno di marocchini e indiani (indiane, a dire il vero, vestite in sari, che vigilano sui loro bimbi che giocano a criket). Però altre urgenze si affacciano: dove mangio cena? Da queste parti (periferia) pochi ristoranti. Avvisto una pizzeria, ma piuttosto che mangiare una pizza a Bressanone mangio niente. Misteriosamente la stessa pro loco ridispone il campanile dove doveva stare, lo vedo, lo raggiungo in quattro falcate. Trovo ristorantino e ordino Groest e birra a belle pinte. Il cameriere, commosso, mentre ritira i piatti mi fa i complimenti per l’appetito. Ho divorato la carne e le patate, bevuto birra a strozzo, intinto il buon pane di segale nel sughetto e spolverato tutta l’insalatina di cavolo. Alla fine butto l’occhio su “L’Alto Adige”, tabloid in lingua italiana. Interessante: non ci sono cruenti fatti di sangue, furti, grassazioni, commercio di droga. Certo, ci sono piccoli episodi di vandalismo. E poi non è che non sia mai successo niente. Ma la considerazione è che nonostate la cospicua presenza di extracomunitari non c’è una vita criminale particolarmente significativa. Sarà che forse nessuno ha fatto propaganda elettorale sugli stranieri delinquenti? Sarà che i servizi sociali e la polizia sanno fare bene il loro mestiere (forse anche con i fondi adatti?). Sarà…
Il giorno dopo, fresco come una rosa (di quelle appassite, visto che il groest si è vendicato correndo su e giù per l’esofago, per tutta la notte) entro nell’aula magna della facoltà di Scienze della Formazione. Incontro e conosco Walter Cesana, il maestro di Borgo San Dalmazzo tanto caro a Davide. Incontro altri docenti universitari amici o conoscenti di Davide. Ascolto gli interventi, tradotti opportunamente in cuffia. Durante i primi si parla di soggettività delle fonti orali, del fatto che non si può mai prendere una testimonianza come un documento oggettivo e veridico, ma è indispensabile contestualizzarlo, ragionarci, vederlo per quel che è: un ricordo umano, passibile di corruzione. E si direbbe anzi che proprio il “modo” di corruzione della memoria sia il nocciolo che cerca lo storico. Non tanto “la verità”, ma l’emozione che oggi prova il testimone in relazione (nel contesto) dell’accadimento. Per questo contano gli incroci con le altre fonti.
Il sindaco ci ha invitato in comune per un breve rinfresco. Nella sala consiliare onusta di legni, ritratti, simboli araldici, affreschi floreali, il primo cittadino ci intrattiene con le slide di presentazione della sua città. Parla tre lingue, è breve, coinciso, cordiale. Passa la parola ad una minuta fanciulla non meglio specificata. Essa è scarsamente bilingue, nel senso che accenna un benvenuto in italiano e poi passa al tedesco e ciau, nel senso che fa un pistolotto di mezz’ora in puro teutonico. Ogni tanto i germanofoni presenti ridono. Gl’italianofoni s’incacchiano e sbuffano. Finisce, poi. Le facciamo un bellapplauso e ci avviciniamo famelici al buffet: speck, formaggio, pane e un bianco di Novacella per niente acido e molto aromatico, bello fresco non freddo. Pomeriggio segue il seminario, con le relative difficoltà dovute al bianco di Novacella. Intanto è arrivato anche Juri Meda, prezioso amico dall’università di Macerata. Torno in seminario, alla fine, per una doccia e un riposino. Mi ripresento al centro storico di Bressanone per la cena, stavolta ho stretto un accordo con la pro loco affinchè non mi si spostino vie e punti di riferimento. Ceno con Juri e altri amici (di Juri) piacevoli. Si scherza e si sorride. Dopo cena io e Juri ci attardiamo cercando un po’ di nostalgia per il nostro comune amico che non c’è, e dovunque sia sta ridacchiando dei nostri affanni. Parliamo di cose serie e bagatelle, di legna e di terra, di casa e di vita futura. Una bella serata.
Il giorno dopo, fresco come una rosa appassita (oltre al groest c’erano pure troppe birre che correvano su e giù) arrivo in aula magna in tempo per parlare con le traduttrici, per fornir loro il testo. Lo hanno già ricevuto e tradotto. Tutto a posto. Organizzazione teutonica…
Ora è il mio momento. Il moderatore ha biascicato delle cose (per me) incomprensibili e in mezzo si è capito pure “Alexandro Mareco”, direi che sono io. Scendo lo scalone tutto agitato e inizio a parlare. Ringraziamenti di rito, poi leggo, piano, che se no le traduttrici s’innervosiscono. Mi accorgo anche che per l’emozione trattengo il fiato per cui parlo coi polmoni pieni, probabilmente sono pavonazzo in volto e sto per svenire. Mi calmo, respiro (ah già, bisogna respirare) e in quattro falcate arrivo a fondo pagina, citando l’ultimo libro di Davide, quando parla dell’importanza della storia della scuola in prospettiva locale, alla necessità di non scadere nel folklore commerciale, nel memoriabilia di bassa lega.
Finito. Mostro i due filmati. Partono entrambi bene. Vedo sullo schermo la faccia della mia vecchia zia parlare il mio dialetto, vedo la fotografia del maestro Milano (lui che voleva passare inosservato, finire in un convegno internazionale… che destino!). Sono scosso, commosso. Guardo la platea, osservano, ascoltano, sorridono. Poi vedo i brani che Davide mi aveva consigliato di inserire, le immagini che mi aveva dato, mi vengono in mente i discorsi che avevamo fatto, l’importanza del lavoro ben fatto. Mi viene in mente che la retorica è il cimitero delle ambizioni umane. Mi viene un magone in gola che va già bene che non devo più parlare. Il moderatore mi avvisa: tempo scaduto. Cut. Fine del filmato. Vado a recuperare il dvd. La platea applaude sobriamente, sorridono. Risalgo la scala, alcuni mi sfiorano, alcuni dicono “bravo”. Una signora mi ferma per dirmi che lei il filmato del maestro se l’è visto su youtube, che si è commossa… Mi ringrazia. C’è il coffee break, e continuiamo a parlare del filmato, delle fonti orali. C’è un professore di Lubjana che vuole saperne di più, ma non parla italiano. Ci capiamo a spizzichi e bocconi, m’immagino quel che dice, lui s’immagina qualcosa di quel che dico. Ho capito molte cose, ho ripensato molto a Davide a tutto quello che mi ha insegnato senza che me ne accorgessi, con la lievità di un amico, senza mai giudicare o “deviare”. Educare senza vincoli, nel rispetto delle persone.
E così è finita anche questa, posso riprendermi il valigione e perdere ancora un po’ di tempo guardando il paese, le belle chiese, il museo diocesano (solo da fuori, chè dentro viene troppo tardi).
Mi prendo il mio bell’interregionale caldo e unto come un brodo di gallina e me ne torno a Verona. Da Verona treno extralusso fino a Milano, da Milano altro interregionale, stavolta fresco, fin troppo fresco. Gelato direi. Condizionatori rotti sul massimo, passeggeri pallidi e gelati…
Non ci sono più i treni di una volta.
Arrivo a casa estraniato, felice, commosso, confuso, incredulo.
Poi penso che lui mi direbbe va bene, hai lavorato bene. Ma adesso basta. Domani? Che farai domani? Hai un progetto? Un lavoro da fare? Un qualche lavoro dignitoso da portare avanti?
Arrivo a Brixen stremato. Direzione chiara in testa, a piedi, che uno si guarda il paesaggio (bello, come tutto il sud Tirolo è). Prima mi accredito al simposio, all’università. C’è l’apertura in corso: politici, bambini coi flauti e chitarrine, vegliardi all’ascolto. Le inaugurazioni si somigliano. Però c’è un buffet particolarmente interessante con strudel e altre cose lussuriose. Dice il referente che però è meglio se prima vado in albergo. In effetti… Sono al “seminario minore”. Il referente dice che non sa dove sia: mai sentito. Bene. Chiedo ad un altro, il nome corrente è “Vinzentinum”, così è conosciuto il “Seminario Minore”, me lo dice un marocchino, parrebbe esperto del posto.
Il “Vinzentinum” mi fa venire in mente “Canone inverso” di Maurensig: è un edificio massiccio e non privo di grazia, ma sobrio, come si addice ad un seminario. Pianta quadrata, 4 piani costruiti sul finire dell’Ottocento. Bellissimo giardino ricolmo di fiori misconosciuti, laghetto con ninfee, ponticello…
Il portiere sembra un po’ stordito, emozionato. È un giovanotto un po’ stazzonato, ma pulito e gentile. Mi registra e mi accompagna nella mia camera. Corridoi ampi e lustri, mi par proprio d’essere tornato in collegio. La mia è la 54, la chiave apre il pesante portone d’accesso e la doppia porta della mia camera (che a questo punto mi piace chiamare “cella”). Ma la chiave non apre. Imbarazzo del portiere. “Skusa” dice e scappa verso la guardiola. Torna con altra chiave, di cui mi mostra, sorridente, il numerino sul portachiavi: 54. “È kvella ciusta!” Esclama felice. Ma no, non è giusta… Panico. Tre passi indietro, esterrefatto. Si avvicina alla porta di fondo e bussa delicatamente. Dice qualche parola a bassa voce. Spunta di là una suorina col capo bendato, come usava tanto tempo fa. La suorina è secca, minuta, seria e cordiale. Mi misura dalla testa ai piedi e poi modula i muscoli del viso in una cosa prossima al sorriso, emette un “morgen”, a cui rispondo convenientemente con “morgen”. Fruga tra le stoffe dell’abito e trova una chiave, immagino un passepartout. Apre la porta in scioltezza. Scompare tornando da dove è venuta.
Dopo il riassetto esco a caccia di roba mangiativa, possibilmente ipercalorica. Procedo con per le strade sudtirolesi con la consumata sicumera del valbormidese in gita che, come noto, non si perde neanche nel labirinto di Cnosso. Vedo il campanile del duomo, da lontano. Non è difficile. Guardo intorno il bel paesaggio naturale e umano. Nascono anche qui, però, le brutte case moderne di cemento. Non tante come i nostri imprenditori vorrebbero, ma anche qui si vedono delle discrete schifezze. Noto la quantità di biciclette e di piste ciclabili e di parcheggi per bici. Noto i parcheggi per auto FUORI dal centro storico. Noto i percorsi pedonali, le aree di raccolta rifiuti differenziata con anche la botticella dell’umido, come le atre foderata di legno. Noto la ricchezza degli alberi lungo l’Isarco: frassini, olmi, aceri e querce… Poche gaggie da noi così invadenti. Ricchezza del territorio vuol dire anche questo: che la natura stessa è varia e composta, ricca perché può ospitare tutto. Quel che si dice biodiversità.
Un difetto grande di questi luoghi è la rapidità con cui la pro loco (o altro ente assimilato) cambia la disposizione del paesaggio. Cammini sicuro che il centro è là, e di colpo ti trovi in periferia. Non si vede più il campanile, non si vede più il centro storico. Strano però: nonostante sia periferia continuano i parchi pubblici, le piste ciclabili, le aree di raccolta differenziata… C’è pieno di marocchini e indiani (indiane, a dire il vero, vestite in sari, che vigilano sui loro bimbi che giocano a criket). Però altre urgenze si affacciano: dove mangio cena? Da queste parti (periferia) pochi ristoranti. Avvisto una pizzeria, ma piuttosto che mangiare una pizza a Bressanone mangio niente. Misteriosamente la stessa pro loco ridispone il campanile dove doveva stare, lo vedo, lo raggiungo in quattro falcate. Trovo ristorantino e ordino Groest e birra a belle pinte. Il cameriere, commosso, mentre ritira i piatti mi fa i complimenti per l’appetito. Ho divorato la carne e le patate, bevuto birra a strozzo, intinto il buon pane di segale nel sughetto e spolverato tutta l’insalatina di cavolo. Alla fine butto l’occhio su “L’Alto Adige”, tabloid in lingua italiana. Interessante: non ci sono cruenti fatti di sangue, furti, grassazioni, commercio di droga. Certo, ci sono piccoli episodi di vandalismo. E poi non è che non sia mai successo niente. Ma la considerazione è che nonostate la cospicua presenza di extracomunitari non c’è una vita criminale particolarmente significativa. Sarà che forse nessuno ha fatto propaganda elettorale sugli stranieri delinquenti? Sarà che i servizi sociali e la polizia sanno fare bene il loro mestiere (forse anche con i fondi adatti?). Sarà…
Il giorno dopo, fresco come una rosa (di quelle appassite, visto che il groest si è vendicato correndo su e giù per l’esofago, per tutta la notte) entro nell’aula magna della facoltà di Scienze della Formazione. Incontro e conosco Walter Cesana, il maestro di Borgo San Dalmazzo tanto caro a Davide. Incontro altri docenti universitari amici o conoscenti di Davide. Ascolto gli interventi, tradotti opportunamente in cuffia. Durante i primi si parla di soggettività delle fonti orali, del fatto che non si può mai prendere una testimonianza come un documento oggettivo e veridico, ma è indispensabile contestualizzarlo, ragionarci, vederlo per quel che è: un ricordo umano, passibile di corruzione. E si direbbe anzi che proprio il “modo” di corruzione della memoria sia il nocciolo che cerca lo storico. Non tanto “la verità”, ma l’emozione che oggi prova il testimone in relazione (nel contesto) dell’accadimento. Per questo contano gli incroci con le altre fonti.
Il sindaco ci ha invitato in comune per un breve rinfresco. Nella sala consiliare onusta di legni, ritratti, simboli araldici, affreschi floreali, il primo cittadino ci intrattiene con le slide di presentazione della sua città. Parla tre lingue, è breve, coinciso, cordiale. Passa la parola ad una minuta fanciulla non meglio specificata. Essa è scarsamente bilingue, nel senso che accenna un benvenuto in italiano e poi passa al tedesco e ciau, nel senso che fa un pistolotto di mezz’ora in puro teutonico. Ogni tanto i germanofoni presenti ridono. Gl’italianofoni s’incacchiano e sbuffano. Finisce, poi. Le facciamo un bellapplauso e ci avviciniamo famelici al buffet: speck, formaggio, pane e un bianco di Novacella per niente acido e molto aromatico, bello fresco non freddo. Pomeriggio segue il seminario, con le relative difficoltà dovute al bianco di Novacella. Intanto è arrivato anche Juri Meda, prezioso amico dall’università di Macerata. Torno in seminario, alla fine, per una doccia e un riposino. Mi ripresento al centro storico di Bressanone per la cena, stavolta ho stretto un accordo con la pro loco affinchè non mi si spostino vie e punti di riferimento. Ceno con Juri e altri amici (di Juri) piacevoli. Si scherza e si sorride. Dopo cena io e Juri ci attardiamo cercando un po’ di nostalgia per il nostro comune amico che non c’è, e dovunque sia sta ridacchiando dei nostri affanni. Parliamo di cose serie e bagatelle, di legna e di terra, di casa e di vita futura. Una bella serata.
Il giorno dopo, fresco come una rosa appassita (oltre al groest c’erano pure troppe birre che correvano su e giù) arrivo in aula magna in tempo per parlare con le traduttrici, per fornir loro il testo. Lo hanno già ricevuto e tradotto. Tutto a posto. Organizzazione teutonica…
Ora è il mio momento. Il moderatore ha biascicato delle cose (per me) incomprensibili e in mezzo si è capito pure “Alexandro Mareco”, direi che sono io. Scendo lo scalone tutto agitato e inizio a parlare. Ringraziamenti di rito, poi leggo, piano, che se no le traduttrici s’innervosiscono. Mi accorgo anche che per l’emozione trattengo il fiato per cui parlo coi polmoni pieni, probabilmente sono pavonazzo in volto e sto per svenire. Mi calmo, respiro (ah già, bisogna respirare) e in quattro falcate arrivo a fondo pagina, citando l’ultimo libro di Davide, quando parla dell’importanza della storia della scuola in prospettiva locale, alla necessità di non scadere nel folklore commerciale, nel memoriabilia di bassa lega.
Finito. Mostro i due filmati. Partono entrambi bene. Vedo sullo schermo la faccia della mia vecchia zia parlare il mio dialetto, vedo la fotografia del maestro Milano (lui che voleva passare inosservato, finire in un convegno internazionale… che destino!). Sono scosso, commosso. Guardo la platea, osservano, ascoltano, sorridono. Poi vedo i brani che Davide mi aveva consigliato di inserire, le immagini che mi aveva dato, mi vengono in mente i discorsi che avevamo fatto, l’importanza del lavoro ben fatto. Mi viene in mente che la retorica è il cimitero delle ambizioni umane. Mi viene un magone in gola che va già bene che non devo più parlare. Il moderatore mi avvisa: tempo scaduto. Cut. Fine del filmato. Vado a recuperare il dvd. La platea applaude sobriamente, sorridono. Risalgo la scala, alcuni mi sfiorano, alcuni dicono “bravo”. Una signora mi ferma per dirmi che lei il filmato del maestro se l’è visto su youtube, che si è commossa… Mi ringrazia. C’è il coffee break, e continuiamo a parlare del filmato, delle fonti orali. C’è un professore di Lubjana che vuole saperne di più, ma non parla italiano. Ci capiamo a spizzichi e bocconi, m’immagino quel che dice, lui s’immagina qualcosa di quel che dico. Ho capito molte cose, ho ripensato molto a Davide a tutto quello che mi ha insegnato senza che me ne accorgessi, con la lievità di un amico, senza mai giudicare o “deviare”. Educare senza vincoli, nel rispetto delle persone.
E così è finita anche questa, posso riprendermi il valigione e perdere ancora un po’ di tempo guardando il paese, le belle chiese, il museo diocesano (solo da fuori, chè dentro viene troppo tardi).
Mi prendo il mio bell’interregionale caldo e unto come un brodo di gallina e me ne torno a Verona. Da Verona treno extralusso fino a Milano, da Milano altro interregionale, stavolta fresco, fin troppo fresco. Gelato direi. Condizionatori rotti sul massimo, passeggeri pallidi e gelati…
Non ci sono più i treni di una volta.
Arrivo a casa estraniato, felice, commosso, confuso, incredulo.
Poi penso che lui mi direbbe va bene, hai lavorato bene. Ma adesso basta. Domani? Che farai domani? Hai un progetto? Un lavoro da fare? Un qualche lavoro dignitoso da portare avanti?
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