giovedì 14 agosto 2008

Zingari!


Un amico mi chiede se so dove comperare martello e incudine per battere la falce. Lui ha provato a cercare ma i ferramenta in zona non l’hanno, o chiedono un sacco di soldi. Io lo so dove cercare: da Camillo, lo zingaro che abita vicino al ponte dell’autostrada, che raccoglie il ferro.

Sono passato di là l’altro giorno che non erano neanche le otto. Si aggirava pensoso nel suo regno di ferrivecchi. Gli ho chiesto se la bottega era già aperta. “Non c’è orario” mi ha detto sorridendo.

Gli ho spiegato cosa cercavo, cominciando a guardare per terra, tra le lamiere, se per caso avvistavo quel che cercavo. Lui ha detto che lo aveva, di aspettarlo lì. Infatti dopo una manciata di secondi lo sento gridare: “Sei fortunato!” e mi viene incontro con il puntone e il martello, proprio loro, proprio quelli che ho visto usare da tutti i miei parenti che oggi non ci sono più.

“Adesso però vieni a prendere il caffè, che più buono non l’hai mai bevuto”. Davanti alla baracca, un unico grande vano lindo e colorato, c’è un gazebo, posto tra roulotte e altre baracche. Sotto il gazebo c’è un tavolino, sopra una caraffa di acciaio, alla sua destra Teresa, già accaldata la mattina presto. S’alza e mi versa mezzo bicchiere di caffè già zuccherato in un bicchiere di carta, mi ricorda di passare di là a quell’ora, che un caffè c’è per tutti. Lo prende anche Camillo. Pago (poco), m’alzo e saluto tutti.

Due questioni:

Camillo ha questa roba perché muoiono i vecchietti, i figli o i nipoti lo chiamano a sgomberare, lui va e raccoglie. Però gli dispiace pure a lui gettare quella roba nel rottame, sia pure perché talvolta la vende a qualche sciagurato di passaggio, oppure solo perché ne percepisce il valore intrinseco che una pialla, un martello, una pinza può avere.

Sia per qualsiasi motivo è rimasto fra i pochi a salvare certe cose. Quelle cose che fanno parte della nostra cultura, delle nostre tradizioni, della nostra memoria.

Questi sono zingari? Si, oggettivamente lo sono. E perché NON possono essere ascritti agli zingari reclamizzati dai media? Quelli sporchi, ladri e farabutti, ladri di bambini, accattoni, approfittatori eccetera? Eppure delle due una: o gli zingari sono tutti così o i media ci raccontano delle balle, o per lo meno non ci dicono tutta la verità, oppure non sono abbastanza precisi.

venerdì 8 agosto 2008

uso e dosi della Costituzione


Sono stato a casa del mio amico Corrado, appassionato di serpenti. A casa sua abitano Giulia, le figlie, alcuni rettili di passaggio, un pappagallo, un cane, diversi gatti.

Appeso ad un chiodo, a destra della porta d’entrata della cucina, c’è uno spago. Allo spago è legata una copia della Costituzione della Repubblica Italiana. Non è una copia bella, da esposizione, in carta pregiata. Ricorda piuttosto uno di quegli elenchi del telefono che si trovavano nei bar della mia infanzia: logori, un po’ unti, con le orecchiette ad ogni pagina.

È lì per essere consultata, non come bandiera, simbolo o emblema con cui riempirsi la bocca.

E infatti la bella figlia diciassettenne, dall’elegante collo e dalla pettinatura curata, ha disquisito con naturalezza sull’interpretazione di alcuni articoli a proposito della ricostituzione del partito fascista.

Sono rimasto molto colpito, e favorevolmente, da questa cosa. La Costituzione andrebbe tenuta a portata di mano, ripassata, pure criticata e discussa, perfino modificata, ove occorra.

Ma bisognerebbe conoscerla, averla presente, sentirla viva e consueta, un oggetto di casa. Dovrebbe tornare verso il popolo, ovvero il popolo dovrebbe conoscerla. Prima che qualcuno la modifichi proditoriamente ove non occorra…

lunedì 4 agosto 2008

dico la mia (seconda parte)

In ogni caso la Lega per poter raggiungere le riforme (o le rivoluzioni) che aveva in animo ha deciso di accordarsi col potere, per raggiungere le leve e i bottoni che gli potrebbero consentire di agire.

Secondo grave errore.

Per accordarsi col potere ha dovuto abbandonare la sua via, la purezza, la genuinità e la semplicità che solo un movimento di popolo svincolato e libero può avere. Sono arrivati i professori, gli esperti, e la Lega ha cominciato a prendere la forma di un partito in cui predominava lo spirito protestante, piccolo borghese, e metteva da parte la protezione di uno strato sociale particolare, quella che viene chiamata retoricamente la “gente comune”, per rivendicare i diritti dei piccoli commercianti, piccoli imprenditori e artigiani: pagare meno tasse, agevolare licenziamenti, consentire maggiori libertà d’azione in materia di infortuni, progettazioni, commerci. La Lega è discesa a Roma e si è insediata nelle stanze dei bottoni. Al suo interno hanno trovato alloggio ex parlamentari che fino a ieri avrebbero combattuto. Siedono insieme a coloro che avrebbero dovuto combattere, contrastare. I politici della Lega hanno giurato nelle mani del presidente della Repubblica, salvo poi, il giorno dopo, riparlare di secessione, insultare simboli o emblemi o vessilli o canzoni. Solo più i giornalisti e i politici ottusi commentano il dito medio di Bossi sollevato contro l’inno d’Italia. Ricordo ancora una volta che in 26 anni, anziché passare alla Repubblica del Nord, si è passati da Lega Lombarda a Lega (e basta)…

Ricordo bene il primo incontro pubblico tra Bossi e Berlusconi, nella villa di Arcore. Il cavaliere accompagnava Bossi in visita al giardino della villa. Il Bossi s’era messo in canottiera, come dire: vedi? Io non mi preoccupo dell’etichetta, io sono popolare, io sono come te, che la domenica ti metti comodo perché fa caldo. E non ho una maglietta alla moda, ho invece una canotta di quelle che aveva tuo padre: ricordi? Perché io sono l’incarnazione di una tradizione popolare, pura e dura, che non si spaventa davanti al riccone, presidente o direttore che sia.

Io non credo che quella canotta sia stata un caso. E questo mi rattrista.

Quale futuro per la Lega?

Intanto il nome non si può più accorciare. Al massimo allungare, allora potrebbe diventare: “Lega dei popoli liberi del nord”, ma può essere che gli svedesi o i danesi, ma anche solo gli austriaci, preferiscano non avere a che fare con la Lega. Allora “Lega dei popoli liberi della Padania”, in ogni caso dovrebbe riuscire a stare fuori dal Popolo della Libertà in modo da fare la parte caustica e rivoluzionaria, popolare, dura e pura. Almeno nelle parole. Bossi potrebbe fare la sparata, Berlusconi potrebbe ridimensionare, nel frattempo il governo promulgherebbe una qualche legge, di quelle che sarebbe meglio far passare nel trambusto.

Continuerà a protestare la secessione, a insultare e far gestacci, finché non saremo tanto abituati da non farci più caso, come il matto del paese nel bar, quello che ce l’ha con tutti ma non fa male a nessuno.

Il vero problema saranno “i figli” di questo modo di fare politica pubblica, quelli che costruiranno un finto carro armato e daranno l’assalto al campanile di San Marco, quelli che, da sindaci, cacciano, strappano, inseguono. Quelli che diffondono odio, rabbia, livore, violenza. Quelli che disinfettano i vagoni ferroviari sui quali stanno viaggiando delle prostitute.

A seminare odio e inciviltà sono certo che non si mieterà mai una messe di pace, prosperità e concordia.

Di chi la responsabilità di tutto questo? In primis direi di Berlusconi, il quale ha percepito il potenziale di affermazione che una forza populista come la Lega può avere sempre. In secondo luogo dei dirigenti della Lega, che da movimento popolare l’hanno traghettata verso le poltrone comode, allineata e coperta di fatto rispetto ai detentori del potere. In terzo luogo della sinistra consolidata, quella tradizionale, quella che nel PCI aveva la faccia dei grandi funzionari di partito, che hanno trasformato progressivamente il PCI in un partito moderato, pacato, perbene, non rappresentativo di nessuna classe o categoria sociale, per il “bene comune” e quindi (infine) vuoto di senso. Questa sinistra non ha capito quanto valesse essere presente nelle case, tra la gente, nelle fabbriche. Quanto fosse importante NON avere la macchina di lusso, il cellulare ultimo modello. Me lo ricordo benissimo quel momento, durante una trasmissione di Milano-Italia, con Gad Lerner, ospite, fra gli altri Michele Serra. Sarà stato il 92 o 93, forse dopo ancora. Dalla platea si alza un giovanotto coi capelli corti, in giacca e cravatta di buona fattura, parla un italiano perfetto, televisivo. Enuncia una serie di osservazioni (che non ricordo neppure) e conclude dicendo di essere un iscritto dei PDS. Michele Serra ringrazia per le domande e premette che se il giovanotto non avesse detto chiaramente di essere un iscritto del suo stesso partito lui non l’avrebbe capito, l’avrebbe anzi considerato come un antagonista politico. Forse tutto questo, concludeva Serra, è un segno dei tempi che stanno cambiando. Era proprio così: a parlare di sinistra non c’era un operaio, un bracciante, un sindacalista appena uscito da un turno di lavoro, ma uno studente già destinato ad essere manager, libero imprenditore, funzionario.

Quando a Torino sono in scesi in piazza gli impiegati e i funzionari, i medi e piccoli borghesi della FIAT per rivendicare il loro diritto a farsi sentire, qualcuno a sinistra ha pensato che anche quello era bacino elettorale e bisognava fare qualcosa per recuperarlo. Questo qualcosa ha compromesso la sinistra, l’ha fatta sentire autorizzata a mettersi sul mercato, a confrontarsi a colpi di giacca e cravatta, auto lucide, occhiali firmati. E invece quello era il momento per invitare la sinistra a ritrovare per davvero le sue radici, per guardare al passato e pensare al futuro. Il lavoro, l’emigrazione, la comprensione e compassione, l’impegno e la dignità personale, la soddisfazione di farcela da soli e di aiutare gli altri, di non dipendere da nessuno se non dalla propria forza e di sapere che si può contare su tutti gli altri. Studiare davvero la storia, non dietro miti vaghi e vuoti, ma entrando negli archivi, raccogliendo le memorie di chi ha vissuto i grandi eventi, insegnando a non dare retta alle sirene televisive o giornalistiche. Senza partire con una teoria da dimostrare, ma pronti ad accogliere le nuove visioni, le nuove interpretazioni che si scoprono man mano. Occorreva combattere una battaglia culturale contro il libero mercato moderno, negli anni ottanta c’erano le strutture per farlo: ogni paese una sede del PCI avrebbe potuto ospitare interventi, documenti, serate di studio pensate per valorizzare quel che in quel luogo c’era di buono, da presentare come antagonista, come modello di vita rispetto alla performances, al successo, agli “yuppies” tanto rampanti da lì a poco.

Terminata l’illusione di un mondo fatto di dirigenti, alti impiegati, di signori, ci siamo risvegliati nel “neoliberismo”, svuotati da (quasi) tutti i NOSTRI contenuti, pieni dei desideri che altri ci avevano, hanno imposto. Ed è stato così che alcuni figli di papà, eredi di cospicui patrimoni, colti più volte a combinare cose perlomeno ridicole e illegittime, insegnano a noi un modello di imprenditorialità. A noi, figli di miti contadini che con quattro vacche e un pezzo di terra hanno cresciuto una famiglia di dieci persone, quel personaggio stiloso non avrebbe niente da insegnare, se non avessimo perso quello che nostro nonno e bisnonno ci hanno insegnato.

E la Lega sale nei sondaggi. Anche adesso che, nella persona del ministro dell’interno, interviene con forze di polizia in armi sulla gente di Vicenza oggi, sulla gente valdostana contro la TAV domani. E il territorio? La protezione del territorio? Dov’è? Che fine fa?

Non so se è giusto ampliare la base militare di Vicenza, non so se è giusto far passare l’alta velocità qui o là. So che la Lega dovrebbe stare da una parte precisa, e non ci sta. Non solo: è dall’altra parte della barricata.

sabato 2 agosto 2008

Dico la mia (prima parte).

La prima volta che ho sentito parlare di lega credo sia stato la fine degli anni ’80. Erano un gruppo di giovanotti che si riconoscevano in una bandiera in cui era rappresentato il leone di San Marco. Assomigliavano molto a dei tifosi di una squadra di calcio e il loro senso di appartenenza proveniva dal fatto che si ritrovavano e riconoscevano veneti fuori di casa. Eravamo infatti a Napoli, durante il servizio militare.

Provavo simpatia per loro: non erano particolarmente violenti o superbi. Avevano legato (appunto) tra loro, stabilendo così un confine non tracciato tra il resto del mondo e la “lega”. Non accadeva nulla di particolare, non erano un’associazione a delinquere, non si facevano particolari favori (non più di quelli che si facevano tra amici) e guardavano ai “terroni” con una certa indulgenza, talvolta pure con simpatia o amicizia.

Insomma: era il fatto di appartenere al Veneto che li faceva veneti, non tanto quel che erano o non erano tutti gli altri.

La Lega Lombarda (come movimento politico) era già nata nel 1982, e la Lega Nord, come partito e coordinamento tra le varie leghe (lombarda e veneta innanzi tutto) è del 1991. Sono quindi 26 anni che i suoi dirigenti (Bossi, storico leader insieme ad altri) predicano la secessione del nord e la Repubblica Lombarda. Di strada oggettivamente ne è stata fatta e bisogna riconoscere alla Lega di aver portato all’attenzione di politici e costituzionalisti la possibilità di una diversa suddivisione dell’Italia: macroregioni, federalismo o perlomeno federalismo fiscale. Tutti argomenti “nuovi”. D’altro canto il fatto che un movimento politico tenda a usare una certa violenza verbale o gestuale minacciando secessioni da 26 anni è una cosa che muove al sorriso.

Le istanze di base, originarie della Lega erano pure comprensibili, talvolta condivisibili. Si trattava, se non ricordo male, di riconoscere la bontà delle proprie radici, tradizioni, produzioni caratterstiche. Non tanto per rivendicare una certa superiorità del nord, quanto per ridare una dignità alla gente comune, dopo che l’uragano consumistico aveva cominciato a distruggere con violenza modelli e consorzi umani formati nei secoli. Dagli anni sessanta cominciano ad essere diffusi modelli e comportamenti imposti e voluti dai media. La vita si complica ed è necessario avere un auto, una moto, un frigorifero, una lavatrice. È indispensabile saper parlare bene in italiano, tanto che il dialetto viene oppresso: ai figli, da quegli anni, si parlerà italiano, per abituarli fin da subito alla lingua nazionale, per non patire discriminazioni. Il cibo, dopo tanti anni di fame e dieta sempre uguale, diventa cibo straniero, inusuale e perciò migliore del cibo “nostrano”. Si compra tutto nelle botteghe, anzi: nei supermercati, dove si celebra il definitivo tramonto di un epoca e il sorgere della nuova era industriale e distributiva: le famiglie cessano di essere centri di produzione e diventano solo più centri di consumo. Molti autori si sono occupati di questa trasformazione, della perdita di dignità che si nascondeva dietro ad un formaggio col marchio famoso, dietro all’esigenza dell’auto, dietro alle parole ricercate e “giuste”, dietro alla forma e ai contenuti di abitazioni sempre più lontane dalle esigenze abitative reali, ma coerenti con il disegno superiore e comune di una produzione su larga scala delle case, dei mobili, degli arredi.

La Lega arriva quindi ultima a occuparsi di questa perdita di dignità, dopo che alcuni hanno individuato l’avversario contro cui lottare nel capitalismo selvaggio, nell’anarchia di mercato e nelle conseguenti trasformazioni delle masse (recentemente mi vengono in mente Pasolini o Vittorini, ma già prima se n’era parlato). La Lega sa di essere popolare, di dover essere popolare, per questo non può seguire ragionamenti troppo complessi ed elaborati. Ha bisogno di sillogismi immediati, rapidi e soddisfacenti. Ha bisogno di identificare un nemico. E comincia col sud, col sud in genere, cavalcando quel razzismo che aveva tanto sèguito proprio a partire dagli anni sessanta, dalle grandi migrazioni nelle fabbriche del nord. Il nemico è al sud, succhia le nostre tasse, non fa nulla, noi lavoriamo e lui gongola (su questo argomento sarebbe interessante raccogliere tutte le cose che si dicevano nei riguardi dei “terroni”, cose che ricordo bene anch’io: sporchi, puzzolenti, pieni di figli, ladri, mercanti di droga, facili al coltello, incapaci, tra qualche anno saranno tutti di loro… e che oggi, pari pari, si dicono di africani o asiatici). Nel giro di qualche anno il nemico si è spostato. “Roma ladrona” è diventato uno degli slogan più gettonati, anche se a Roma, adesso, ci sono seduti proprio loro. In effetti il “nemico” è diventato l’extracomunitario, oppure anche il comunitario ma di chiara provenienza zigana, come se rumeno fosse uguale a rom… In ogni caso da lombarda è diventata Lega Nord per rimanere Lega e basta.

In ogni caso la Lega si fa portatrice e rappresentante di questo diritto al riconoscimento di un certo orgoglio delle proprie tradizioni, usi, costumi e linguaggi. Noi del nord, sembra dire, abbiamo radici antiche e nobili: lavoro, fatica, onestà, pulizia, libera impresa, rettitudine morale. Noi del nord non siamo donnicciole, meno che mai omosessuali, pigri, banali impiegatucci frustrati. Noi siamo sani e forti, lavoratori irsuti e muscolosi dalle indubitabili virtù sessuali (“Celodurismo”). Siamo un popolo generato da un territorio fertile e ricco che noi stessi, con il nostro lavoro, avremmo potuto trasformare in un Eden, se non fosse per qualche disturbatore (politico romano, terrone, extracomunitario).

Negli anni la Lega ha dovuto allora costruire una serie di miti e leggende, di rituali, atti a dimostrare che questo popolo generato dal territorio esiste, che il nord Italia, la Pianura Padana, sono un ente territoriale preciso e storicamente identificabile. Era indispensabile per dare coerenza ad un progetto politico e sociale.

Ed è stato il primo, grande errore.

Poiché la padania non esiste, perché il dialetto non è una lingua, perché la gente che vive nell’Italia settentrionale deriva da incroci di persone provenienti da una larga parte del mondo, come tutti. Perché il Po non è una divinità in cui si possano riconoscere gli abitanti del nord Italia (oltre a non essere, di fatto, una divinità), perché l’acqua raccolta alle falde del Monviso e liberata nel delta è un bel rito, molto spettacolare, ma vuoto di senso.

È vero invece che bisognava difendere la dignità delle persone dall’assalto frontale del comunismo di stato e dal capitalismo spietato prima, dal mercato anarchico oggi.

Un esempio:

Mia zia. ha molti anni, da sempre fa la contadina. Quando la vado a trovare mi offre cibo e caffè, poi mi invita a seguirla nella stalla, dove mi mostra le vacche e il vitellino ultimo nato. È orgogliosa, felice di avere un vitellino così bello nella stalla.

Poi passo a salutare suo figlio, che abita poco lontano. È molto gentile anche lui. Dopo il caffè mi invita in garage e mi mostra una lussuosissima auto lucida, tanto reclamizzata in tv. Ne è orgoglioso. Prima di andar via chiacchiero con sua figlia, la quale mi mostra l’ultimo modello di telefonino: una scatoletta colorata capace di fare cose di cui si può fare a meno.

Essere orgogliosi della propria vacca o della propria auto? Si capisce l'abisso che divide le due visioni?

Non critico la persona o l’automobile, critico un sistema economico che ci vuole proni, passivi di fronte al mangime che ci viene confezionato e consegnato senza che ci colga neppure il dubbio di poter scegliere. Aumenta la percezione di libertà (puoi scegliere il modello di auto o il piano tariffario telefonico che preferisci, ma non puoi fare a meno dell’auto o del telefonino) ma diminuisce la possibilità di scegliere.