In ogni caso la Lega per poter raggiungere le riforme (o le rivoluzioni) che aveva in animo ha deciso di accordarsi col potere, per raggiungere le leve e i bottoni che gli potrebbero consentire di agire.
Secondo grave errore.
Per accordarsi col potere ha dovuto abbandonare la sua via, la purezza, la genuinità e la semplicità che solo un movimento di popolo svincolato e libero può avere. Sono arrivati i professori, gli esperti, e la Lega ha cominciato a prendere la forma di un partito in cui predominava lo spirito protestante, piccolo borghese, e metteva da parte la protezione di uno strato sociale particolare, quella che viene chiamata retoricamente la “gente comune”, per rivendicare i diritti dei piccoli commercianti, piccoli imprenditori e artigiani: pagare meno tasse, agevolare licenziamenti, consentire maggiori libertà d’azione in materia di infortuni, progettazioni, commerci. La Lega è discesa a Roma e si è insediata nelle stanze dei bottoni. Al suo interno hanno trovato alloggio ex parlamentari che fino a ieri avrebbero combattuto. Siedono insieme a coloro che avrebbero dovuto combattere, contrastare. I politici della Lega hanno giurato nelle mani del presidente della Repubblica, salvo poi, il giorno dopo, riparlare di secessione, insultare simboli o emblemi o vessilli o canzoni. Solo più i giornalisti e i politici ottusi commentano il dito medio di Bossi sollevato contro l’inno d’Italia. Ricordo ancora una volta che in 26 anni, anziché passare alla Repubblica del Nord, si è passati da Lega Lombarda a Lega (e basta)…
Ricordo bene il primo incontro pubblico tra Bossi e Berlusconi, nella villa di Arcore. Il cavaliere accompagnava Bossi in visita al giardino della villa. Il Bossi s’era messo in canottiera, come dire: vedi? Io non mi preoccupo dell’etichetta, io sono popolare, io sono come te, che la domenica ti metti comodo perché fa caldo. E non ho una maglietta alla moda, ho invece una canotta di quelle che aveva tuo padre: ricordi? Perché io sono l’incarnazione di una tradizione popolare, pura e dura, che non si spaventa davanti al riccone, presidente o direttore che sia.
Io non credo che quella canotta sia stata un caso. E questo mi rattrista.
Quale futuro per la Lega?
Intanto il nome non si può più accorciare. Al massimo allungare, allora potrebbe diventare: “Lega dei popoli liberi del nord”, ma può essere che gli svedesi o i danesi, ma anche solo gli austriaci, preferiscano non avere a che fare con la Lega. Allora “Lega dei popoli liberi della Padania”, in ogni caso dovrebbe riuscire a stare fuori dal Popolo della Libertà in modo da fare la parte caustica e rivoluzionaria, popolare, dura e pura. Almeno nelle parole. Bossi potrebbe fare la sparata, Berlusconi potrebbe ridimensionare, nel frattempo il governo promulgherebbe una qualche legge, di quelle che sarebbe meglio far passare nel trambusto.
Continuerà a protestare la secessione, a insultare e far gestacci, finché non saremo tanto abituati da non farci più caso, come il matto del paese nel bar, quello che ce l’ha con tutti ma non fa male a nessuno.
Il vero problema saranno “i figli” di questo modo di fare politica pubblica, quelli che costruiranno un finto carro armato e daranno l’assalto al campanile di San Marco, quelli che, da sindaci, cacciano, strappano, inseguono. Quelli che diffondono odio, rabbia, livore, violenza. Quelli che disinfettano i vagoni ferroviari sui quali stanno viaggiando delle prostitute.
A seminare odio e inciviltà sono certo che non si mieterà mai una messe di pace, prosperità e concordia.
Di chi la responsabilità di tutto questo? In primis direi di Berlusconi, il quale ha percepito il potenziale di affermazione che una forza populista come la Lega può avere sempre. In secondo luogo dei dirigenti della Lega, che da movimento popolare l’hanno traghettata verso le poltrone comode, allineata e coperta di fatto rispetto ai detentori del potere. In terzo luogo della sinistra consolidata, quella tradizionale, quella che nel PCI aveva la faccia dei grandi funzionari di partito, che hanno trasformato progressivamente il PCI in un partito moderato, pacato, perbene, non rappresentativo di nessuna classe o categoria sociale, per il “bene comune” e quindi (infine) vuoto di senso. Questa sinistra non ha capito quanto valesse essere presente nelle case, tra la gente, nelle fabbriche. Quanto fosse importante NON avere la macchina di lusso, il cellulare ultimo modello. Me lo ricordo benissimo quel momento, durante una trasmissione di Milano-Italia, con Gad Lerner, ospite, fra gli altri Michele Serra. Sarà stato il 92 o 93, forse dopo ancora. Dalla platea si alza un giovanotto coi capelli corti, in giacca e cravatta di buona fattura, parla un italiano perfetto, televisivo. Enuncia una serie di osservazioni (che non ricordo neppure) e conclude dicendo di essere un iscritto dei PDS. Michele Serra ringrazia per le domande e premette che se il giovanotto non avesse detto chiaramente di essere un iscritto del suo stesso partito lui non l’avrebbe capito, l’avrebbe anzi considerato come un antagonista politico. Forse tutto questo, concludeva Serra, è un segno dei tempi che stanno cambiando. Era proprio così: a parlare di sinistra non c’era un operaio, un bracciante, un sindacalista appena uscito da un turno di lavoro, ma uno studente già destinato ad essere manager, libero imprenditore, funzionario.
Quando a Torino sono in scesi in piazza gli impiegati e i funzionari, i medi e piccoli borghesi della FIAT per rivendicare il loro diritto a farsi sentire, qualcuno a sinistra ha pensato che anche quello era bacino elettorale e bisognava fare qualcosa per recuperarlo. Questo qualcosa ha compromesso la sinistra, l’ha fatta sentire autorizzata a mettersi sul mercato, a confrontarsi a colpi di giacca e cravatta, auto lucide, occhiali firmati. E invece quello era il momento per invitare la sinistra a ritrovare per davvero le sue radici, per guardare al passato e pensare al futuro. Il lavoro, l’emigrazione, la comprensione e compassione, l’impegno e la dignità personale, la soddisfazione di farcela da soli e di aiutare gli altri, di non dipendere da nessuno se non dalla propria forza e di sapere che si può contare su tutti gli altri. Studiare davvero la storia, non dietro miti vaghi e vuoti, ma entrando negli archivi, raccogliendo le memorie di chi ha vissuto i grandi eventi, insegnando a non dare retta alle sirene televisive o giornalistiche. Senza partire con una teoria da dimostrare, ma pronti ad accogliere le nuove visioni, le nuove interpretazioni che si scoprono man mano. Occorreva combattere una battaglia culturale contro il libero mercato moderno, negli anni ottanta c’erano le strutture per farlo: ogni paese una sede del PCI avrebbe potuto ospitare interventi, documenti, serate di studio pensate per valorizzare quel che in quel luogo c’era di buono, da presentare come antagonista, come modello di vita rispetto alla performances, al successo, agli “yuppies” tanto rampanti da lì a poco.
Terminata l’illusione di un mondo fatto di dirigenti, alti impiegati, di signori, ci siamo risvegliati nel “neoliberismo”, svuotati da (quasi) tutti i NOSTRI contenuti, pieni dei desideri che altri ci avevano, hanno imposto. Ed è stato così che alcuni figli di papà, eredi di cospicui patrimoni, colti più volte a combinare cose perlomeno ridicole e illegittime, insegnano a noi un modello di imprenditorialità. A noi, figli di miti contadini che con quattro vacche e un pezzo di terra hanno cresciuto una famiglia di dieci persone, quel personaggio stiloso non avrebbe niente da insegnare, se non avessimo perso quello che nostro nonno e bisnonno ci hanno insegnato.
E la Lega sale nei sondaggi. Anche adesso che, nella persona del ministro dell’interno, interviene con forze di polizia in armi sulla gente di Vicenza oggi, sulla gente valdostana contro la TAV domani. E il territorio? La protezione del territorio? Dov’è? Che fine fa?
Non so se è giusto ampliare la base militare di Vicenza, non so se è giusto far passare l’alta velocità qui o là. So che la Lega dovrebbe stare da una parte precisa, e non ci sta. Non solo: è dall’altra parte della barricata.
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