lunedì 1 agosto 2011

Conosci i serpenti?


Un amico mi chiama e mi dice: “Vieni a vedere, ho ammazzato uno “spessore”, il maschio della vipera, quello che tu dici che non esiste”.

Vado, armato di macchina fotografica. Sullo “spessore” (o anche detto pesurd in dialetto) se ne sentono di tutti i tipi: è grosso, velenoso e terribile. Sembra più un mostro mitologico che un serpente propriamente detto. Il fatto è che il serpente di cui si parla, quello che viene chiamato appunto “spessore” non esiste. Il maschio della vipera è più piccolo della femmina e non particolarmente più pericoloso.

In genere, quando troviamo una serpe vicino a casa, si pensa prima di tutto a sputizzarlo. Poi si pensa (spesso) a raccontare l’atto eroico, che sarà più eroico quanto più è pericolosa la serpe in questione. Per cui si finisce sempre per ammazzare delle “vipere” da due metri o degli spessori, ancora più feroci.

Nella fattispecie, il mio caro amico che mi ha chiamato, ha ucciso un malpopon monspessulanus, o colubro di Montpellier, o colubro lacertino. Serpente aggressivo, certo, ma non velenoso per l’uomo. Si tratta di serpe opistoglifo, cioè dotato di un dente velenifero in fondo alla bocca, che avvelena la preda mentre la inghiotte. Quindi, a meno di venire inghiottiti da questa serpe, è impossibile esserne morsicati. Della vipera non solo non è il maschio, ma non è nemmeno parente.

Certo che questo tipo di serpente darebbe una buona caccia a tutti quei topi che infestano i ripostigli del mio amico. Non sempre uccidere un serpente è una buona idea. Anzi, quasi mai.

Anche la stessa vipera non è assolutamente mortale come la vulgata vorrebbe. A meno di non essere bimbi, malati, vecchi, il morso di una vipera (per quanto grave) è difficile che sia mortale.

martedì 5 luglio 2011

Simposio Internazionale sulla Storia della Scuola



Il treno, come lo conoscevo io, non c’è più. Prenoti su internet, carrozza e posto, vicino o meno al finestrino. Silenzio e quasi lusso. Uno si stupisce perfino. Si dice: ma come, tutti che si lamentano di questi treni… e invece aria condizionata, personale “di bordo” (una volta era “personale viaggiante”) gentile, display colorati, tavolinetti… Il viaggio non è lungo, ma la pianura Padana è noiosa. Non è difficile scambiare rari sorrisi e brevi parole con i compagni di viaggio. Giungo a Milano sereno e riappacificato con le ferrovie, mi dico convinto che anche mio padre ferroviere sarebbe contento. Milano centrale me la ricordo bene. Non è cambiata, colossale monumento celebrativo della grandezza della rotaia fassista… Cambio e prendo frecciablu o bianca per Verona. Treno di lusso pure questo. Ma che bello, penso… Comodo e fresco. Anche qui persone gentili e sorridenti. Si chiacchiera persino un po’. Arrivo a Verona: un caldo soffocante. Cambio e prendo un interregionale per Bressanone. Il treno è sporco. Direi sudicio. Ma perlomeno è fresco. Poi il treno parte e si spegne il condizionamento. Finestrini chiusi. Asfissia. Gli altri viaggiatori sono sconvolti. Pure non è difficile sorridere e dire alcune parole di circostanza, scherzare (per inciso: ma non è che in Liguria e in Val Bormida in particolare, siamo tutti musoni fuori luogo? Mah, è un’impressione neh!).
Arrivo a Brixen stremato. Direzione chiara in testa, a piedi, che uno si guarda il paesaggio (bello, come tutto il sud Tirolo è). Prima mi accredito al simposio, all’università. C’è l’apertura in corso: politici, bambini coi flauti e chitarrine, vegliardi all’ascolto. Le inaugurazioni si somigliano. Però c’è un buffet particolarmente interessante con strudel e altre cose lussuriose. Dice il referente che però è meglio se prima vado in albergo. In effetti… Sono al “seminario minore”. Il referente dice che non sa dove sia: mai sentito. Bene. Chiedo ad un altro, il nome corrente è “Vinzentinum”, così è conosciuto il “Seminario Minore”, me lo dice un marocchino, parrebbe esperto del posto.
Il “Vinzentinum” mi fa venire in mente “Canone inverso” di Maurensig: è un edificio massiccio e non privo di grazia, ma sobrio, come si addice ad un seminario. Pianta quadrata, 4 piani costruiti sul finire dell’Ottocento. Bellissimo giardino ricolmo di fiori misconosciuti, laghetto con ninfee, ponticello…
Il portiere sembra un po’ stordito, emozionato. È un giovanotto un po’ stazzonato, ma pulito e gentile. Mi registra e mi accompagna nella mia camera. Corridoi ampi e lustri, mi par proprio d’essere tornato in collegio. La mia è la 54, la chiave apre il pesante portone d’accesso e la doppia porta della mia camera (che a questo punto mi piace chiamare “cella”). Ma la chiave non apre. Imbarazzo del portiere. “Skusa” dice e scappa verso la guardiola. Torna con altra chiave, di cui mi mostra, sorridente, il numerino sul portachiavi: 54. “È kvella ciusta!” Esclama felice. Ma no, non è giusta… Panico. Tre passi indietro, esterrefatto. Si avvicina alla porta di fondo e bussa delicatamente. Dice qualche parola a bassa voce. Spunta di là una suorina col capo bendato, come usava tanto tempo fa. La suorina è secca, minuta, seria e cordiale. Mi misura dalla testa ai piedi e poi modula i muscoli del viso in una cosa prossima al sorriso, emette un “morgen”, a cui rispondo convenientemente con “morgen”. Fruga tra le stoffe dell’abito e trova una chiave, immagino un passepartout. Apre la porta in scioltezza. Scompare tornando da dove è venuta.
Dopo il riassetto esco a caccia di roba mangiativa, possibilmente ipercalorica. Procedo con per le strade sudtirolesi con la consumata sicumera del valbormidese in gita che, come noto, non si perde neanche nel labirinto di Cnosso. Vedo il campanile del duomo, da lontano. Non è difficile. Guardo intorno il bel paesaggio naturale e umano. Nascono anche qui, però, le brutte case moderne di cemento. Non tante come i nostri imprenditori vorrebbero, ma anche qui si vedono delle discrete schifezze. Noto la quantità di biciclette e di piste ciclabili e di parcheggi per bici. Noto i parcheggi per auto FUORI dal centro storico. Noto i percorsi pedonali, le aree di raccolta rifiuti differenziata con anche la botticella dell’umido, come le atre foderata di legno. Noto la ricchezza degli alberi lungo l’Isarco: frassini, olmi, aceri e querce… Poche gaggie da noi così invadenti. Ricchezza del territorio vuol dire anche questo: che la natura stessa è varia e composta, ricca perché può ospitare tutto. Quel che si dice biodiversità.
Un difetto grande di questi luoghi è la rapidità con cui la pro loco (o altro ente assimilato) cambia la disposizione del paesaggio. Cammini sicuro che il centro è là, e di colpo ti trovi in periferia. Non si vede più il campanile, non si vede più il centro storico. Strano però: nonostante sia periferia continuano i parchi pubblici, le piste ciclabili, le aree di raccolta differenziata… C’è pieno di marocchini e indiani (indiane, a dire il vero, vestite in sari, che vigilano sui loro bimbi che giocano a criket). Però altre urgenze si affacciano: dove mangio cena? Da queste parti (periferia) pochi ristoranti. Avvisto una pizzeria, ma piuttosto che mangiare una pizza a Bressanone mangio niente. Misteriosamente la stessa pro loco ridispone il campanile dove doveva stare, lo vedo, lo raggiungo in quattro falcate. Trovo ristorantino e ordino Groest e birra a belle pinte. Il cameriere, commosso, mentre ritira i piatti mi fa i complimenti per l’appetito. Ho divorato la carne e le patate, bevuto birra a strozzo, intinto il buon pane di segale nel sughetto e spolverato tutta l’insalatina di cavolo. Alla fine butto l’occhio su “L’Alto Adige”, tabloid in lingua italiana. Interessante: non ci sono cruenti fatti di sangue, furti, grassazioni, commercio di droga. Certo, ci sono piccoli episodi di vandalismo. E poi non è che non sia mai successo niente. Ma la considerazione è che nonostate la cospicua presenza di extracomunitari non c’è una vita criminale particolarmente significativa. Sarà che forse nessuno ha fatto propaganda elettorale sugli stranieri delinquenti? Sarà che i servizi sociali e la polizia sanno fare bene il loro mestiere (forse anche con i fondi adatti?). Sarà…
Il giorno dopo, fresco come una rosa (di quelle appassite, visto che il groest si è vendicato correndo su e giù per l’esofago, per tutta la notte) entro nell’aula magna della facoltà di Scienze della Formazione. Incontro e conosco Walter Cesana, il maestro di Borgo San Dalmazzo tanto caro a Davide. Incontro altri docenti universitari amici o conoscenti di Davide. Ascolto gli interventi, tradotti opportunamente in cuffia. Durante i primi si parla di soggettività delle fonti orali, del fatto che non si può mai prendere una testimonianza come un documento oggettivo e veridico, ma è indispensabile contestualizzarlo, ragionarci, vederlo per quel che è: un ricordo umano, passibile di corruzione. E si direbbe anzi che proprio il “modo” di corruzione della memoria sia il nocciolo che cerca lo storico. Non tanto “la verità”, ma l’emozione che oggi prova il testimone in relazione (nel contesto) dell’accadimento. Per questo contano gli incroci con le altre fonti.
Il sindaco ci ha invitato in comune per un breve rinfresco. Nella sala consiliare onusta di legni, ritratti, simboli araldici, affreschi floreali, il primo cittadino ci intrattiene con le slide di presentazione della sua città. Parla tre lingue, è breve, coinciso, cordiale. Passa la parola ad una minuta fanciulla non meglio specificata. Essa è scarsamente bilingue, nel senso che accenna un benvenuto in italiano e poi passa al tedesco e ciau, nel senso che fa un pistolotto di mezz’ora in puro teutonico. Ogni tanto i germanofoni presenti ridono. Gl’italianofoni s’incacchiano e sbuffano. Finisce, poi. Le facciamo un bellapplauso e ci avviciniamo famelici al buffet: speck, formaggio, pane e un bianco di Novacella per niente acido e molto aromatico, bello fresco non freddo. Pomeriggio segue il seminario, con le relative difficoltà dovute al bianco di Novacella. Intanto è arrivato anche Juri Meda, prezioso amico dall’università di Macerata. Torno in seminario, alla fine, per una doccia e un riposino. Mi ripresento al centro storico di Bressanone per la cena, stavolta ho stretto un accordo con la pro loco affinchè non mi si spostino vie e punti di riferimento. Ceno con Juri e altri amici (di Juri) piacevoli. Si scherza e si sorride. Dopo cena io e Juri ci attardiamo cercando un po’ di nostalgia per il nostro comune amico che non c’è, e dovunque sia sta ridacchiando dei nostri affanni. Parliamo di cose serie e bagatelle, di legna e di terra, di casa e di vita futura. Una bella serata.
Il giorno dopo, fresco come una rosa appassita (oltre al groest c’erano pure troppe birre che correvano su e giù) arrivo in aula magna in tempo per parlare con le traduttrici, per fornir loro il testo. Lo hanno già ricevuto e tradotto. Tutto a posto. Organizzazione teutonica…
Ora è il mio momento. Il moderatore ha biascicato delle cose (per me) incomprensibili e in mezzo si è capito pure “Alexandro Mareco”, direi che sono io. Scendo lo scalone tutto agitato e inizio a parlare. Ringraziamenti di rito, poi leggo, piano, che se no le traduttrici s’innervosiscono. Mi accorgo anche che per l’emozione trattengo il fiato per cui parlo coi polmoni pieni, probabilmente sono pavonazzo in volto e sto per svenire. Mi calmo, respiro (ah già, bisogna respirare) e in quattro falcate arrivo a fondo pagina, citando l’ultimo libro di Davide, quando parla dell’importanza della storia della scuola in prospettiva locale, alla necessità di non scadere nel folklore commerciale, nel memoriabilia di bassa lega.
Finito. Mostro i due filmati. Partono entrambi bene. Vedo sullo schermo la faccia della mia vecchia zia parlare il mio dialetto, vedo la fotografia del maestro Milano (lui che voleva passare inosservato, finire in un convegno internazionale… che destino!). Sono scosso, commosso. Guardo la platea, osservano, ascoltano, sorridono. Poi vedo i brani che Davide mi aveva consigliato di inserire, le immagini che mi aveva dato, mi vengono in mente i discorsi che avevamo fatto, l’importanza del lavoro ben fatto. Mi viene in mente che la retorica è il cimitero delle ambizioni umane. Mi viene un magone in gola che va già bene che non devo più parlare. Il moderatore mi avvisa: tempo scaduto. Cut. Fine del filmato. Vado a recuperare il dvd. La platea applaude sobriamente, sorridono. Risalgo la scala, alcuni mi sfiorano, alcuni dicono “bravo”. Una signora mi ferma per dirmi che lei il filmato del maestro se l’è visto su youtube, che si è commossa… Mi ringrazia. C’è il coffee break, e continuiamo a parlare del filmato, delle fonti orali. C’è un professore di Lubjana che vuole saperne di più, ma non parla italiano. Ci capiamo a spizzichi e bocconi, m’immagino quel che dice, lui s’immagina qualcosa di quel che dico. Ho capito molte cose, ho ripensato molto a Davide a tutto quello che mi ha insegnato senza che me ne accorgessi, con la lievità di un amico, senza mai giudicare o “deviare”. Educare senza vincoli, nel rispetto delle persone.
E così è finita anche questa, posso riprendermi il valigione e perdere ancora un po’ di tempo guardando il paese, le belle chiese, il museo diocesano (solo da fuori, chè dentro viene troppo tardi).
Mi prendo il mio bell’interregionale caldo e unto come un brodo di gallina e me ne torno a Verona. Da Verona treno extralusso fino a Milano, da Milano altro interregionale, stavolta fresco, fin troppo fresco. Gelato direi. Condizionatori rotti sul massimo, passeggeri pallidi e gelati…
Non ci sono più i treni di una volta.
Arrivo a casa estraniato, felice, commosso, confuso, incredulo.
Poi penso che lui mi direbbe va bene, hai lavorato bene. Ma adesso basta. Domani? Che farai domani? Hai un progetto? Un lavoro da fare? Un qualche lavoro dignitoso da portare avanti?

venerdì 27 maggio 2011

orti, ruspe e sviluppo


Ho affittato un orto, tre anni fa. Saranno cento metri di terra. Ho anche dei vicini di orto, persone che non conoscevo e che ora frequento. Si chiacchiera, ci si scambia favori. Vicino all'orto c'era una vasta pianura alluvionale. E' stata riempita da rifiuti industriali, in passato. Ora un dinamico imprenditore ha acquisito l'area e, per volontà dell'amministrazione comunale, si procederà a edificare la zona artigianale, piena di asfalto, cemento, luci sfolgoranti, tubi e marciapiedi. Tra il mio orto e la zona artigianale c'era una piccola palude. Nella palude, ingombra di salici, ontani e altri arbusti, allignavano bene rane, rospi e biacchi (i quali hanno una strana simbiosi per cui questi mangiano vicendevolmente gli altri - la biscia mangia i rospi grandi, i rospi mangiano i piccoli della biscia - mantenendo un peculiare equilibrio).
Per il bene dello sviluppo e dell'impresa e dell'economia, le piante sono state tutte abbattute, lo stagno è stato interrato.
Come se non bastasse questa piccola zona umida era anche ad una quota più bassa rispetto al mio orto. Ora che è interrata il punto più basso dell'avvallamento è diventato l'orticello, per cui ora, appena piove, tutto si allaga. Tra qualche anno dove c'era una serie di orti metropolitani ci sarà una selva di erbacce, più probabilmente un garage, un plinto, un ponte... qualcosa di cemento, quale che sia.
Io penso che è molto triste questa cosa, molto triste che l'unica economia che funzioni sia rimasta quella legata al cemento. Penso che sia molto triste far morire un orto, un appezzamento costruito con terra portata in ceste da altre parti, su cui hanno vissuto e mangiato tante persone. E mi stupisco moltissimo a sapere che l'imprenditore (dicono, ma non so se sia vero) ha finanziato la campagna elettorale del partito padano, proprio il partito che difende il territorio, che rispetta le sacre tradizioni (con tutto che la responsabilità di questa situazione non è tutta del partito padano, naturalmente).
Anni del boom economico, anni di piombo, anni di merda, e oggi, infine, anni di cemento, pesanti e irremovibili, dai quali non so proprio come e se usciremo.

lunedì 16 maggio 2011

Un sito per Davide

Al link www.davidemontino.it è visitabile il sito che raccoglie materiale su Davide Montino.

martedì 10 maggio 2011

tutto uguale, tutti uguali, tutto più semplice


Tutto si assomiglia sempre di più. Nella memoria di ognuno di noi c’è, da qualche parte, il ricordo delle differenze che hanno abitato le nostre vite nel tempo che fu. Si rischia di essere passatisti, e di celebrare i “bei tempi andati”, nei quali si giocava con le biglie o amenità di questo tipo.
Allora diciamo prima di tutto che nell’ultimo secolo abbiamo avuto dei bei progressi oggettivi, sulle condizioni di salute, di scolarità, di sicurezza sul lavoro e di diritti alla persona. La mia impressione è che le cose stanno cominciando a cambiare. Per ora il cambiamento non sta nell’inversione di tendenza, ma nell’assottigliamento delle scelte.
Tutto quel che nella nostra vita è artificiale (e ormai lo è quasi tutto) è prodotto da pochi centri di potere. Si chiama produzione di massa e consente di ottimizzare i margini di guadagno.
Passo all’esempio quotidiano e banale, forse puerile: non si trovano, nei bar, dei caffè pessimi. È una stupidaggine? No, è un segno interessante: i caffè sono ormai tutti uguali. Non sto parlando della differenza raffinata da gourmant (che va addestrata e che la massa NON HA, per definizione). Da ragazzo ricordo bar che producevano un caffè rivoltante, lungo e puzzolente. Locali fumosi, dall’aroma vissuto. C’erano sempre un paio di ubriachi che giocavano a carte. Poi c’erano i bar “belli” e poi c’erano quelli “di città” a cui non eravamo abituati. Ora i bar sono (quasi) tutti uguali, a Savona come a Milano, e offrono le stesse cose, senza possibilità di scelta. I supermercati, i centri commerciali sono i grandi promotori di questa uniformazione livellata.
Avevamo, in passato, auto diverse. Prodotte in grande scala, sia chiaro, ma un auto italiana era profondamente diversa da una francese, nel rumore, nelle sospensioni, persino nel cambio. Auto diverse, ti potevano piacere o meno, ma diverse… Oggi ci sono macchine tutte sempre più uguali, al massimo puoi scegliere la categoria (SUV, berlina, utilitaria), ma non c’è più scelta.
I giornali si assomigliano, o riportano comunque le stesse notizie, gli stessi commenti. Appena si esce dalla diatriba del momento circa quel tale personaggio, quando ci si avvicina ai grandi temi, ecco il “pensiero unico”, che tutto comprende e tutto anestetizza…
Non ce ne accorgiamo perché ci hanno convinto che siamo liberi di scegliere, liberi di fare come vogliamo, che abbiamo il gusto, la sensibilità, il buon senso di scegliere coscienziosamente le cose che abbiamo. Qualcuno ha speso miliardi su questo. Ci hanno convinto, inoltre, che i diritti sono innati, connaturali all’uomo, e che è pacificamente automatico avere “diritto a…”. Mentre i diritti, acquisiti con faticose battaglie, necessitano di manutenzione, di applicazione, di discussione.
La stessa democrazia, tanto sfolgorante all’indomani della fine della guerra, si è come appannata di fronte all’attuale sistema di comunicazione, soporosamente piatto e uniformato ad un linguaggio, ad un concetto, una sola libertà e visione del mondo.
Per finire con la politica: il crollo dell’imperialismo sovietico ha provocato un allargamento dell’idea comune, neutra. Fatti salvi i casi in cui i politici sono ladri o disonesti, il sistema partitico genera, da “destra” o da “sinistra”, proposte di soluzione ai problemi molto simili, anche se ci sembrano (ce le fanno sembrare) diverse. Non avere il Partito Comunista al 20% (ma anche qualsiasi altro partito fuori dal pentapartito isituzionale, è stato un impoverimento. Ci abituiamo giorno per giorno a questo mondo dove ci sembra di scegliere tutto, e invece non scegliamo più niente: prodotti, opinioni, partiti, canoni di bellezza, lingua con cui esprimerci.

lunedì 25 aprile 2011

Riviera Ligure. E ho detto tutto...


Ho fatto quattro passi in un paese della Riviera Ligure. Per tutto il tempo mi sono chiesto come può, un paese del genere, pensare al turismo come una risorsa. A parte il piccolo centro storico scarso di negozi, ingombro di ristoranti maleodoranti, di fioriere piene di arbusti rinsecchiti, c’è una larga cintura residenziale anni settanta, in cui ogni tanto spunta qualche palazzaccio orribile (dove gli altri sono solamente banalissimi condomini). Come in ogni paese d’Italia c’è un architetto o un artista o un ingegnere parente di un potente che imperversa liberamente (forse sono più d’uno). La passeggiata a mare è in realtà una passeggiata su un viale trafficato e rumoroso, essendo il mare completamente chiuso alla vista da cabine e altri ordigni balneari. Tutto suggerisce che qui ci si viene solo per essere alleggeriti. Ti diverti? Pazienza. Non ti diverti? Fatti tuoi, potevi andare da un’altra parte. Esisterebbe, in questo paese, una certa tradizione artigiana di tutto rispetto, ma sembra che non ci siano più operatori del settore, essendo divenuti tutti artisti. Come tali hanno un brutto carattere e prezzi orripilanti. Immagino che per puntare su un settore artigianale ed artistico occorra puntare su questo con perizia e capacità, sapendo cogliere le novità effettive sul mercato, dando respiro e rilevanza alle capacità organizzative, manuali, pratiche degli artigiani, ma anche alle potenzialità artistiche nel contesto dell’arte mondiale. Costa soldi, costa impegno, costa fatica. Né i politici, né gli operatori del settore sembra che facciano tutto questo. Si vive con quel passa il convento (pardon, il torinese e il milanese) che però non faticherà poi troppo a trovare decine di posti (restando in Italia) dove sia accolto in maniera commisurata ai denari che spende.
Entro in un bar. La cassiera, una donna cospicua e accaldata, mi guarda senza fiatare. “Un caffè”, le dico, ed estraggo dal portafoglio quel che ho: 20 euro. “Eh belin, ma oggi tutti con 20 euro?”. Chiedo scusa, rovisto ma non trovo. Alla fine mi dà il resto lo stesso. Al banco la barista giovane e gentile mi serve. La cassiera s’è alzata e chiede ad un cameriere: “L’hanno mangiato l’agnello?” (il bar è anche ristorante). Non sento la risposta del cameriere. La cassiera comunica: “Mettilo via nei vassoi che…(incomprensibile)”.
Credevo fosse una leggenda, invece è vero: il turista in Riviera è (spesso) ingombrante, fastidioso. Dà fastidio al ristoratore, barista, commerciante, politico, funzionario… I quali certamente pensano: “Qui siamo in Riviera, ragazzo! Poche storie! O torta di riso, o prendersela nel K. Ah! E la torta di riso è finita…”
A pochi chilometri c’è una cittadina. Qualche anno fa hanno sventrato completamente un quartiere antico come il porto, bruciato un bellissimo brigantino alato fra le case, imposto vetri verdognoli, alluminio e acciaio. È il “terminal”, parola che dona un fascino cosmopolita all’intera città. Mi vengono da dire un paio di cose: ambiente artificiale, asettico, pulito e sterile come una camera mortuaria. Spazi male utilizzati, settori (fortunatamente) lasciati com’erano (e curiosamente recintati, come fosse un lazzaretto…). Un paio di negozietti per turisti. Lunghe gallerie buie (“Del buon vento”) che fanno passar la voglia e grandi vetrate che prima o poi saranno troppo sporche, e che costerà sempre troppo far pulire. Un idea: e se invece di distruggere e ricostruire cose innovative (che poi durano poco e costano un sacco di soldi) provassimo a recuperare quel che c’è? Magari ci sono cose belle e caratteristiche che valorizzate potrebbero essere accoglienti, calde, indimenticabili. Più di una struttura anonima che potrebbe trovarsi a Sidney, Malibù o Helsinki… A ma noi qui siamo in Riviera, non abbiamo bisogno di renderci indimenticabili: lo siamo già…

mercoledì 13 aprile 2011

Onore e memoria


Le parole sono importanti. Ne avevamo parlato proprio con Davide. Aveva visto il film di e con Moretti "Palombella rossa". C'è una scena (divertentissima) in cui una giornalista intervista il protagonista Michele, dicendo una quantità di luoghi comuni e usando parole "trendy". Michele accusa dolore fisico, alla fine reagisce urlando, schiaffeggiando l'intervistata ("Come parlaaa! Chi parla male pensa male!").
Questa scena era stata vista e commentata da Davide con un certo interesse. Si comincia proprio dalle parole, dalla scelta delle parole. Poi si prosegue con una certa superficialità, oppure con sicumera. Siamo tutti esperti di tutto. Abbiamo tutti diritto di parola su tutto. E invece non è vero: i diritti si conquistano, come la cultura, la conoscenza. Il diritto non è innato con l'uomo.
Un giornalista ha parlato del premio alla tesi di laurea in Storia della scuola che stiamo formalizzando in questi giorni. Ha scritto, nel titolo:"Premio in onore di...". Niente di male, per carità. Ma la parola "onore" suona male nel contesto di Davide. Non che non sia onorevole, ma "onore" e "orgoglio" sono termini che Davide avrebbe lasciato volentieri ad altre radici politiche ed etiche.
Davide non era "orgoglioso", ma più semplicemente 'consapevole', serenamente certo del suo compito, del suo mestiere, della sua preparazione, della sua vocazione (se vogliamo), tutto quanto come frutto di un progetto di vita, di un processo, fatto di impegno e dedizione.
Il lavoro di storico consiste proprio nel dovere di individuare le differenze, anche piccole. Di studiare le particole che fanno la differenza. Agli altri il giudizio, a tutti. Ma le differenze contano. Eccome.

sabato 19 marzo 2011

unità d'Italia


Ora che abbiamo ufficialmente festeggiato l’unità nazionale posso dire che ho provato un vago fastidio. E lo so che poi di me si può dire che non mi va mai bene niente, ma forse è proprio così, cosa vogliamo farci? Non mi va mai bene niente. Certo, sono contento, felice di essere qui, al mondo adesso, in Italia e non altrove. Ma ho qualcosa da dire.
L’unità nazionale è soprattutto la formazione del regno d’Italia. Eravamo sudditi, siamo diventati cittadini. Non è mica poco… Nel 1861 lo stato era rappresentato dal re, il quale disponeva. Disponeva tutto. Quante guerre sono state fatte al grido di “Avanti Savoia!”? Dopo molto tempo, dopo trasformazioni durissime, dolorose, laceranti, spesso ancora irrisolte, siamo diventati repubblica: non più sudditi ma cittadini (anche se a volte dubito della capacità di partecipazione dei cittadini italiani).
La neonata Italia apparteneva alla famiglia sabauda, poco prima apparteneva a signori dal modesto dominio e allo stato della chiesa. Non aveva la forma che oggi conosciamo. I contadini morivano di pellagra nel 1850 come nel 1860 (e i contadini erano la maggior parte degli abitanti), i latifondisti erano padroni prima e dopo il 1960. Quindi, tutto sommato, non vedo motivi peculiari per festeggiare questa ricorrenza. Anzi ne vedo tre, tutti discutibili: la voglia mai sopita di nazionalismo, il quale è il terreno di cultura idoneo per altre, sciagurate ideologie; il bisogno di riguadagnare spazio retorico e tradizionalistico da parte della sinistra riformista (e quindi anche i partiti neocomunisti) e infine il riempire un vuoto che la lega ha creato, con una retorica di peggior levatura che quella nazionale, con le storie sulla padania, il dio Po, le ampolle e il Nabuccodonosor.
Non mi piace neanche quest’ultimo perché la retorica leghista non si può contrastare con un’altra retorica, ma solo con lo studio serio della Storia e con l’acutizzazione del senso critico.
Festeggerò, con molta sobrietà, il 2 giugno, giorno in cui è nata la repubblica, l’inizio di un percorso ancora da definire.

venerdì 18 marzo 2011

Il libro di Davide


Davide continua a germogliare, su alti livelli. A Torino, martedì, presentano il suo lavoro su Mastro Sapone (Giuseppe Fanciulli) presso la Fondazione Tancredi di Barolo. Con Pino Boero (ordinario di Letteratura per l'infanzia a Genova) e Giorgio Chiosso (ordinario di Storia della Pedagogia a Torino).

lunedì 14 marzo 2011

Considerazioni


E io continuo a stupirmi di quelli che s’indignano per tutto quel che combina B. (e soprattutto la sua cricca). Io mi sarei stupito del contrario.
I valori morali, l’integrità morale, le qualità istituzionali, l’onestà… Non fanno parte dell’armamentario utile per uscire dal guado e dal guano.
Inoltre il padrone è il padrone, ed è quel che è per definizione, non puoi aspettarti niente di meglio, niente di più.
B. è il frutto di un processo, se anche si processasse e condannasse, l’albero germoglierebbe un altro virgulto (che forse ha già estroflesso le prime foglie, non lo so).
E poi, cosa ancora dovrebbe fare B. per farsi veramente detestare da tutti? Nessun reato è sufficiente, nessuna prova è abbastanza evidente. Tutto in fondo è discutibile, relativo. Una volta contestualizzato tutto, dalla bestemmia ai rapporti sessuali con una minorenne, sono bagatelle, stupidaggini, cose private.
Gli italiani possono perdonare questo ed altro. Anzi: tutto. Tranne un leader che non sia in grado di comandare (non dico comandare bene, ma comandare).
La fine di B. è cominciata, è non è dovuta alla sinistra inesistente. La parabola si sta esaurendo, ma la storia (mal letta) m’insegna che è prima di iniziare l’agonia che il padrone dà il meglio, fa maggior danno, si dibatte furente e ferito. Nei prossimi mesi/anni vedremo il meglio (o il peggio, a seconda da che parte si sta: coi padroni o coi non padroni).
Ci saranno processi e rettifiche della legge, ci saranno scontri e feriti, ci saranno fughe e inseguimenti, e rabbia.

Smettetela di guardare la televisione. Leggete almeno 3 o 4 quotidiani di diversa estrazione politica. Parlate con i vostri vicini dei VOSTRI problemi. Non lasciatevi trascinare nel gorgo: lui non è il male quanto è vero che “gli altri” non sono il bene.

La strada giusta? Che ognuno se la cerchi da sé, io non so proprio cosa fare.

mercoledì 23 febbraio 2011

Tutti a Tavola


Sono seduto a tavola. Davanti a me c'è un pollo arrosto appena uscito dal forno. E' profumatissimo e croccante, bene arrostito. Vicino ho un piatto di patate al forno. Belle arrostite. Mi sono guadagnato tutto: ho lavorato, ho accumulato soldi, li ho investiti bene, e adesso mi godo il frutto di quest'impegno. Uno splendore. C'è tanto da mangiare che mi cade persino un po' di roba dal piatto, e io non faccio neanche la fatica di raccoglierla.
All'altro capo del tavolo, a circa un metro da me, ci sono una decina di persone. Sono nate tutte in una baracca, hanno perso fratelli appena nati, d'inedia, chè la mamma non aveva latte. La madre aveva l'AIDS e non ha fatto in tempo a coccolarli. Hanno cominciato a lavorare a cinque anni, alcuni in miniera, altri a cucire scarpe o palloni. Sono cresciuti nell'ignoranza e nella miseria. L'unico cenno di umanità è stata quella che gli hanno dato delle scuole coraniche, insegnando a memoria e senza ragionamento l'appartenenza a una nazione, a un dio, a una terra e ad un sangue. Una retorica che fa presa dappertutto.
Ora, io mi aspetto che questa gente abbia rispetto per il mio lavoro e il mio pollo arrosto profumato. Io credo di aver diritto di mangiarlo e non dividerlo con nessuno. O magari posso dar loro le ossa da raccogliere, o gli scarti, quando sarò sazio.
D'altra parte sono dei barbari: gente senza civiltà. Basta pensare che bevono l'acqua dei pozzi, sporca di terra, tant'è vero che poi muoiono di dissenteria. Non sono neanche capaci a scegliere l'acqua minerale al supermercato. Barbari!

Cosa ci fa suppore che un uomo che vive nella miseria sia disposto a continuare a vivere in una regola dettata da chi ha l'eccesso (perchè anche durante la crisi economica, noi siamo all'eccesso)?

Le soluzioni possono essere: erigere muri tra me e i miseri (i muri proteggono dai barbari, ma mi impediscono di vedere e di muovermi. E i barbari restano dietro al muro, irrisolti). Oppure "si prende atto", come dicono i politici, e si pensa a soluzioni di ampio respiro e di lungo periodo, tamponando l'emergenza alla meno peggio.

Oppure... Oppure vivacchiamo. E i politici quando si presenta il problema su scala impressionante (come fra poco) ci mostreranno i loro sforzi per rendere più sicure le strade, per consentirci di mangiare il nostro pollo arrosto in faccia ai morti di fame.

venerdì 18 febbraio 2011

A me non è piaciuto.


A me non è piaciuto. L’apologia della nazione, della patria e della bandiera, attraverso il Risorgimento e le sue passioni romantiche è una questione molto popolare, anzi: nazional-popolare. Della stessa retorica si sono serviti (all’occorrenza) comunisti e fascisti.
Stamattina ho raccolto le impressioni di alcuni amici e colleghi: tutti colpiti dalla grande eruditezza del comico. È piaciuto a tutti. Erudito? Ma non è “erudito”! è piuttosto un “animale da palcoscenico”, uno che affabula, affascina. Una persona che riesce a magnetizzare la sala. Ma non è un erudito. Non è neanche uno storico, non è un ricercatore o uno studioso. Quel che ha magistralmente raccontato è la (parzialissima) versione della cronologia storica italiana di una parte del Risorgimento.
“L’inno degli italiani” è una canzone che rappresenta l’unità italiana, e va bene. Ma che sia un’opera poetica strabiliante… ce ne corre. Su quelle note e quelle parole, molti si sono lasciati uccidere, molti sono stati mandati a morte. Sulla visione tutta romantica, adottata dal Risorgimento, per cui la morte, soprattutto quella eroica, è bella e desiderabile, soprattutto per la propria patria, su quella visione, dicevo, milioni di contadini sono stati poi mandati a morire malamente sul Carso, per guadagnare qualche metro di rocca secca e sterile (ma anche se fosse stata terra fertile, non ne sarebbe valsa la pena). “Siam pronti alla morte” ? Davvero? Noi italiani siamo pronti a morire per l’Italia? Quasi sicuramente si, perché siamo quasi sicuri che nessuno ce lo chieda. Se invece ci chiedessero una cosa debita e quotidiana, come pagare le tasse, pretendere diritti, compartecipare alla vita civile, combattere l’ingiustizia, allora no, non ci stiamo: troppo impegnativo.
Ho visto la platea di Sanremo applaudire al bravo comico. Bene, un altro successo della retorica. Un po’ mi dispiace, perché è segno di immaturità. Ma poi penso come diceva Ortega y Gasset che la “Retorica è il cimitero delle attività umane, o tutt’al più ne è l’ospedale degli invalidi”. Tutto finisce lì.
L’Ottocento è stato il secolo delle grandi trasformazioni, in cui le nazioni si sono definite e da cui sono nate le più terribili guerre dell’umanità. Milioni di persone, in Italia, sono andate e tornate dall’America, alla ricerca di qualcosa di meglio.
Mi par di ricordare che i contadini fossero alla fame, e alla fame restarono per anni e anni. Ogni tanto lo stato italiano risorto li richiamava e li spediva a combattere in Africa, sul Carso o non so dove. Poi venne il fascismo a blandirli, anche ad (effettivamente) aiutarli (causando infine più danni che altro e promuovendo poi in realtà solo l’industria, lasciando l’agricoltura nelle mani dei pochi latifondisti). E gli operai nelle fabbriche, a sfinirsi di lavoro, donne e bambini a quattordici ore al giorno. Il Risorgimento? Forse è solo una convenzione, un’idea retorica da usare secondo le necessità del momento.

martedì 15 febbraio 2011

Un altro libro nuovo


L'avevo scritto per lui, quasi per prenderlo un po' in giro, e un po' per fargli dei complimenti, per ringraziarlo in modo non banale.
M'è sfuggito prima che potessi.

Ho concluso la procedura e l'ho stampato.
La cosa notevole è che la prima e la seconda edizioni sono andate esaurite.
Critiche assolutamente entusiaste da mia madre, da mio fratello, dalla mia vicina di casa (che non l'ha letto, ma è una cara e annosa signora, e va sulla fiducia).
Dicevo tutto esaurito: le 10 copie che ho stampato (in due edizioni separate) sono andate via come una birra gelata a Reykjavik alle 6 del mattino.
Son soddisfazioni...
Si può scaricare e leggere direttamente sul sito degli amici del Consorzio della Quarantina:
Qui: http://www.quarantina.it/pdf/Marenco_Rablon_e_altre_storie.pdf
Si tratta di una raccolta di raccontini.
Io mi son divertito a scriverlo.
E bon.

domenica 13 febbraio 2011

giù le brache!


Dalla Liberazione gli italiani (gli europei) si sono ricostruiti uno Stato. Lungi dall'essere perfetto, ma era il loro Stato, costruito e condiviso. Pieno di difetti, ma era il loro. Poi è venuto giù il muro di Berlino e le cose sono cambiate. Complessivamente in peggio.
Abbiamo cominciato con le partecipazioni statali: via, regalate tutte, anche quelle che rendevano. Poi abbiamo fatto le cartolarizzazioni: venduto immobili ai privati. Via.
Le Poste private, che fino a poco fa ti inseguivano per farti fare investimenti vantaggiosissimi (a capo di qualche finanziaria privata)...
Anche le ferrovie (enormi aree in grandi città che costerebbero uno sproposito).
Beni di famiglia che i nostri ascendenti hanno impiegato anni e anni (più o meno consapevolmente) a costruire, spariti in un soffio, sull'altare del turbomercato.
Per entrare in Europa, ci hanno detto, bisognava correggere il dissesto economico. Ora in Europa ci siamo, e per restarci dobbiamo continuare a vendere i gioielli di famiglia. Il "buon padre di famiglia" (figura citata dal codice civile, come esempio di rettitudine) che lavora poco e male e per risolvere il problema dei debiti col pizzicagnolo vende l'anello, il braccialetto della moglie, la medaglietta della prima comunione dei bambini. Sarebbe un buon padre di famiglia?
E il bello è che si chiamano "economisti"!!
Era molto più economista mio nonno (o i vostri) che doveva cavarsela per sè e per i suoi tre figli e moglie, con 3 bestie nella stalla e due ettari di terra. Sapeva amministrarsi, moderarsi, investire, fare sacrifici, se era il caso. Questi ministri (di centro destra e di centro sinistra) non mi pare abbiano niente di nuovo da proporre.
Per questo non me ne importa niente del bunga bunga. Io lo sapevo da prima che questo qui se ne doveva andare, mica da ora. E' che non c'è nessuno nuovo. E la musica sarà sempre e di nuovo la stessa.
Giù le brache!

mercoledì 9 febbraio 2011

Per non dimenticare. Che cosa?

Per non dimenticare. Che cosa dovrei “non dimenticarmi”?
A scuola hanno chiesto a mia nipote di fare una “relazione” sul film: “Il bambino col pigiama a righe”. Bene, le ho chiesto, l’insegnante intende parlare del film o dei campi di sterminio?
“Non lo so” dice lei.
Il merito, evidentemente, è dell’insegnante, che non sa o non ritiene importante la differenza che corre tra un film e una ricostruzione storica, tra un racconto e la lettura della realtà, tra la storia e la Storia, tra quel che si dice e quel che si studia.
E fa male che sia proprio la scuola la sede in cui accadono queste cose.
Ho visto poche scene del film, e credo (occhio e croce) che sia un bel film, ma inverosimile.
Nel film c’è, ad esempio, un häftling che si attarda in casa dei “padroni” per curare il bimbo che si è ferito seduto, fa il suo lavoro. Entra la moglie dell'SS comandante del campo e lui non alza lo sguardo, non lo abbassa (non si alza in piedi come la sua sciagurata condizione vorrebbe). Poi il bambino col pigiama a righe sta vicino al filo spinato e parla con l’ariano. È altamente improbabile che in un campo sia successa una cosa del genere. I bambini, secondo Levi, in campo erano “uccelli di passo”: venivano uccisi subito o nel giro dei primi giorni.

Era una cosa che ho sempre temuto e che viene fuori sempre più evidente: sostituiremo la storia con la memoria, sostituiremo l’approfondimento con la cerimonia.
“Giornata della memoria: per non dimenticare”. Ma quale memoria? Visto che i reduci non ci sono quasi più? Semplice: la memoria che ci siamo creati noi guardando i film in tv. E questo ci basta. E invece no! I film sono racconti. La realtà sta nei testi, nelle registrazioni, nei libri, negli studi. Per arrivare alla Storia si USA la memoria. Forse l’unica speranza di salvare veramente la storia della Seconda Guerra Mondiale, campi di sterminio e “soluzione finale” compresi, è quella di dimenticare tutto. Rimuovere completamente tutto quello che ci hanno fatto ricordare e, se proprio si vuole, visitare archivi, biblioteche, visionare registrazioni e forse, alla fine, alcuni film.
Se no la Shoah diventa uno spettacolo.

lunedì 31 gennaio 2011

continuare


Si, continuare si continua, ci mancherebbe. Non esiste mai un buon motivo per smettere.
Però non c'è luogo a procedere, non c'è spazio, non c'è gusto.
Provo a parlare delle cose con alcuni, come ne parlavo con lui. Non serve: o vogliono aver ragione e non ti ascoltano, o ti guardano come fossi un alieno, o un mentecatto.
L'ultimo schiappino della Val Bormida si crede di essere il docente di Umberto Eco. E io con chi parlo? Tutti genii, tutta gente che sa tutto, che non ha niente da imparare e per questo non sa insegnare niente.
Ma poi ha senso fare qualcosa? Mentre scrivo un riassunto di un saggio su un preciso tema del ventennio mi chiedo: posso prendere delle scorciatoie, nessuno lo leggerà, e anche se lo leggessero nessuno se ne accorgerebbe: tutti sapiuti, tutti onniscenti.
Pensavo al gruppo di amici che avevamo coltivato, ma sono tutti compresi in altre celebrazioni. In buona fede, certo, per l'amor di dio, sono per bene. Ma hanno preso la loro strada, fatta di eventi, di giochi, di stile, di parole senza seguito.
E mi accorgo infine, che la cosa più difficile da trovare è la semplicissima capacità di essere conseguenti e affidabili. Facciamo questo? si. Basta, non c'è più bisogno di aggiungere una sola parola. E invece no: discorsi, incontri, accordi, liti, incomprensioni. E per cosa?! Per un peto o poco più.
E io mi ero abituato bene, mi ero abituato ad uno standard altissimo, complesso e organico, profondo e affettuoso. E si era si, no era no. E basta.
E ora non so.