giovedì 11 dicembre 2008

Un libro nuovo!


http://ilmiolibro.kataweb.it/libro.asp?id=49588

A questo indirizzo, gentili signori, potete trovare l’ultima storia che ho scritto. Trattasi di vicenda a tratti buffa, a tratti un po’ meno. Contiene alcuni personaggi antipatici ed altri simpatici. La maggior parte anziani. Fa caldo, ci sono ortaggi e baracche, assessori e galoppini. C’è amore, pochissimo sesso, molta artrosi.

La peculiarità sta, in fondo, non tanto nel libro (ché tanto oramai scriviamo proprio tutti in Italia…) quanto nella realizzazione del testo edito: mediante questo sito chiunque può comporre il proprio libro e vederlo stampato anche solo in UNA copia, spedito a casa con corriere, ci mettono cinque o sei giorni. E il prezzo non è tanto diverso da quello che può essere quello di una tipografia normale, che però, per editare, ha bisogno di almeno 2/300 copie come minimo.

Quindi, se chi legge ha un testo da stampare, lo formatti secondo i parametri indicati sul sito, salvi il file (magari in .pdf) sul sito stesso, scelga la copertina e via… Fatto… Anche solo una copia! Non male per gli scriventi da nevrosi, come me, che non hanno bisogno di farne 500 copie (che poi non si sa dove mettere…).

Volendo, poi, al link di cui sopra si può anche acquistare detto libro, non male, no?

“Qui tutti parlano e parlano / o peggio scrivono e scrivono

È cultura universale / o biblioteca comunale?”

I. Fossati.

mercoledì 10 dicembre 2008

Tutto sbagliato, tutto da rifare...

La crisi è finalmente arrivata. Siamo all’inizio, dicono; siamo al principio. Staremo a vedere. Negli USA hanno eletto il primo presidente abbronzato, il petrolio costa la metà di quel che costava qualche mese fa (ma non la benzina, fortunatamente), noi abbiamo una classe politica di anzianotti arzilli, con al seguito una corte splendida ma apparentemente inefficace, per non dire inadatta. Ce lo siamo persino un po’ meritato: basta politici, ci siamo detti. Infatti: avanti avvocati, presentatori, giornalisti, facce da spettacolo. Ecco fatto.
Comunque sia le fabbriche annunciano cassa integrazione o più semplicemente non rinnovano i contratti ai precari. Siamo in tanti, in CIG, e siamo destinati ad aumentare.
Nonostante tutto il nostro presidente richiama all’ottimismo.
Da qualche anno lo stato ci ha convinto (o fatto convincere) che le auto inquinano. “Quindi” bisogna farle più pulite (errore: se inquinano sono da ridurre, non da sostituire!). In effetti ora le strade sono intasate e non ci sono più parcheggi, ergo bisogna fare le grandi infrastrutture: è evidente!
Da qualche anno lo stato ha investito soprattutto nel gioco d’azzardo. Non so i modi e i tempi, ma siamo diventati molto peggio di Las Vegas o Montecarlo. Tutto sparso e spalmato per la bella Italia. Da qualche anno lo stato ci ha convinto (ha contribuito, ha agevolato gli istituti di credito) che BISOGNA spendere, che è un dovere buttare soldi dalla finestra: macchine, viaggi, vestiti, cibi. Ma anche e soprattutto interessi. Il vero affare di questi anni! Gli interessi sugli interessi. Ci vendevano un auto, un materasso, una vacanza? No, in realtà ci stavano vendendo un debito. Che noi compravamo gioiosamente. Adesso non ce n’è quasi più, ci appelliamo tutti al gratta e vinci, perché è questo che abbiamo imparato in questi anni, che la lotteria è l’unica speranza, l’unica via d’uscita.
E il presidente ci dice che dobbiamo spendere? E l’opposizione si occupa dell’IVA su una televisione privata di un magnate peggio del nostro?
Datemi retta, cari 2 amici che passate di qui per caso: NON SPENDETE PIU’. Imparate ad essere parsimoniosi. Non gettate la roba da mangiare, disfate le maglie di lana vecchie e lavorate coi ferri, fatevi un orto e scambiate la verdura vostra con quella del vicino, tenetevi due galline per le uova. Mandate a quel paese tutti i politici che vi dicono di spendere o vi parlano di problemi che non vi riguardano. Non abbiamo bisogno di spendere. Abbiamo bisogno di imparare a risparmiare. Sui buoni fruttiferi che mi regalava mia nonna c’era raffigurato un contadino in maniche di camicia che semina il SUO campo. Adesso cosa ci mettono? Il cittadino in ginocchio davanti al direttore di banca?
Non si deve giocare d’azzardo, è immorale, è ingiusto. Non si devono far debiti per delle stupidaggini: è immorale, deve essere imbarazzante, un motivo di vergogna. Non si devono comprare cose di cui possiamo fare a meno: è sbagliato.
La felicità non c’entra con quello che si possiede. La felicità è uno stato di grazia che si coltiva CON gli altri.
E la chiesa, la maggiore istituzione politica italiana, di cosa si occupa? Della depenalizzazione del reato di omosessualità! Di cellule staminali, di embrioni, di cancellare il limbo. Non ha altro da fare? Possibile?
E lo so che NELLA chiesa c’è anche chi si occupa di temi sociali da vicino, partecipando, edificando, amando. Ma le gerarchie fanno fatica a comprendere, tese come sono a seguire l’evoluzione politica della situazione.
Il fatto è che i capi son capi. I ricchi son ricchi e i padroni son padroni.
Guardiamoci negli occhi, tra noi. Lasciamoli soli, che s’aggiustino!

mercoledì 5 novembre 2008

Il superamento della retorica


Il carissimo amico, competente in materia, mi scrive una pagina estremamente interessante, che condivido in pieno, e che, come sempre, meglio non saprei dire.
Per cui eccola tal quale.



Sono stato invitato ad una celebrazione per il 4 novembre. Visto che erano coinvolte le scuole del
piccolo paese, ho accettato. Non avevo grandi speranze né attese, di solito sono giornate celebrative.
Ma nemmeno mi aspettavo di ritrovare ancora tanta retorica ed una ricostruzione semplicistica ed
unilaterale delle vicende del 15-18. D’altra parte hanno parlato gli amministratori e altre cariche, e
allo storico di professione (io) hanno concesso quei pochi minuti che servono per dire “c’era anche
l’Università”… Ora, premesso che rispetto la buona fede degli organizzatori, e il loro intento
“pedagogico”, devo però fare alcune osservazioni.
Intanto, non è vero che la Prima guerra mondiale è stata solo guerra per l’unità d’Italia, quasi una
guerra del Risorgimento. Questa lettura, tipica del nazionalismo e del fascismo (e in genere del
conservatorismo) sottolinea solo una delle cause. Certamente ci fu chi vide nella guerra contro
l’Austria la possibilità di realizzare completamente l’unificazione italiana, ed in genere erano gli
esponenti – per tanti versi ingenui – dell’irredentismo democratico; ma poi c’erano ragioni legate
all’espansione economica nei Balcani, politiche quindi di tipo imperialista e coloniale, cui si
legavano gli interessi della grande industria e della finanza, e che trovavano accoglienza
nell’ideologia espansionistica e di potenza del neonato nazionalismo italiano. Corona, intellettuali,
industria, esercito, parte minoritaria nel paese, erano per la guerra, non il popolo. Dire che i soldati
al fronte sono stati eroici non deve per forza significare omettere la verità: la maggior parte degli
italiani erano ostili o indifferenti alla guerra, e dunque non sono partiti nell’entusiasmo generale
come si tende a dire retoricamente. E sono poi questi italiani, soprattutto contadini ed operai, che
hanno pagato il prezzo più alto, e anche l’inefficienza e la presunzione dello Stato maggiore. Nel
2008 perché dobbiamo ancora limitarci a queste spiegazioni? Possibile che ancora non si possano
dire le cose per come stanno, per come la ricerca storiografica le ha indagate e studiate?
Altre questione: Tutti eroi! Anche qui, possibile che si debba far finta che milioni di soldati siano
partiti contenti di andare verso la morte per la patria? Ma se molti di quei soldati non sapevano
nemmeno parlare l’italiano, e si esprimevano solo in dialetto! Perché non si leggono le loro
testimonianze, le quali ci raccontano di paure, angosce, incomprensioni, voglia di tornare a casa….?
E le dure condizioni sopportate solo perché si era abituati al freddo, allo sporco, al duro lavoro… E’
davvero necessario comunicare queste bugie ai più giovani? Cosa ci sarebbe di male a far
comprendere l’umanità di quei soldati, i loro limiti, la fatica e anche lo sfruttamento cui sono stati
destinati dal loro ceto. Forse gli ufficiali, borghesi, giovani pieni di entusiasmo, studenti, idealisti ed
ideologizzati hanno creduto alla guerra di unificazione nazionale, oppure vi hanno visto i modi di
una rigenerazione o anche la possibilità di una rivoluzione. Non si chiede di negare la storia di chi
ha creduto in certi valori, ma di raccontarle tutte le storie, perché le cose si capiscono meglio
quando tengono conto dei punti di vista di tutti. Ed invece mi pare che si neghi l’esperienza dei più,
a vantaggio di un’idea della guerra, quelle delle classi dominanti che perseguivano i loro vantaggi
ed interessi, classi che rappresentavano la minoranza del paese. Se si esclude la semplice ignoranza
dei fatti di chi perpetua questa visione, allora significa che si ritiene che i poveri fanti-contadini
dovevano eseguire ordini giusti presi da una elite, che erano solo gli strumenti di disegni più
profondi e ampi di chi li doveva guidare; questo aprirebbe allora nuove discussioni, ma di certo
sarebbe poi difficile dire che erano “motivati da orgoglio nazionale”. Insomma, o erano eterodiretti,
allora mette male che fossero anche “volontari”, oppure erano “volontari”, e allora come spiegare le
loro stesse testimonianze che in larga parte ci fanno vedere che non erano certo mossi da idealità
superiori?! Anzi, lettere e diari ci dicono proprio il contrario, e sappiamo pure che dietro alle linee
c’erano le forze dell’ordine pronte a sparare a chi si ritirava. Ma non tutto si vuole, evidentemente,
ricordare alla stessa maniera.
E qui vengo al terzo punto. Perché si deve sempre ricordare (per non dimenticare è il motto di
queste iniziative)? Ma soprattutto, come si fa a ricordare se non si comprende? Invece di adottare un
metodo coattivo verso i giovani (voi “dovete” ricordare, è vostro dovere ricordare) non è meglio che
comprendano, che capiscano? Magari poi ricorderanno anche di più. Ma per comprendere non
bastano, anzi non servono, le celebrazioni retoriche. Serve lo studio, la ricerca, il dialogo, la serietà,
il confronto; serve un’educazione alla complessità, al pluralismo, soprattutto quando si parla di
storia.
E allora basta con la retorica. Basta con la retorica del 4 novembre, del 25 aprile, del 2 giugno e così
via… Non è una questione politica, ma in gran parte di intelligenza e maturità. Siamo mica così
imbecilli da dover credere ancora e sempre alle vuote celebrazioni? E passi per gli adulti, ma
dobbiamo obbligare a questa nostra cecità intellettuale anche i bambini e i ragazzi che abbiamo a
scuola?
Lo ripeto: abbiamo bisogno di comprendere e di far comprendere ai nostri allievi e alunni; non
abbiamo bisogno di suscitare emozioni irrazionali (se mai di educare a come gestirle, ma questo è
un altro discorso) intorno a temi, valori e modelli di comportamento obsoleti.

domenica 7 settembre 2008

La natura minacciata

La natura è minacciata per più versi. La chimica, il ciodue, la cementificazione selvaggia, lo scioglimento dei ghiacci, l’innalzamento della temperatura media terrestre. I segni sono visibili in televisione: si coprono i ghiacciai, si rilevano temperature anomale, persino gli orsi polari sono alla disperata deriva su un piccolo pezzo di pack, destinati a morire di fame o di fatica.

È l’uomo, evidentemente, che ha sfruttato troppo la natura, che l’ha inquinata, che la inquina tutt’ora e che non vuol cambiare rotta.

Bisogna risparmiare acqua: quando vi lavate i denti chiudete il rubinetto? No? Male, molto male. Questa del rubinetto mentre mi lavo i denti è diventata un’ossessione, un tropos.

In ogni caso ci beviamo SENZA senso critico tutto quel che ci dicono in televisione. Il legame tra causa ed effetto è semplificato dal giornalista di passaggio, in modo che la realtà sia sempre spiegabile e comprensibile...

Oggi mi son fermato a chiacchierare con un amico, un contadino anziano. Mi diceva che questa è una stagione strana: è venuta la neve, questa primavera è piovuto, ma i rivi e i torrenti sono quasi secchi. Eppure quand’era fanciullo sotto una certa misura d’acqua, nel torrente sotto casa, non si scendeva mai, neppure negli anni più siccitosi. Forse hanno captato la fonte per l’acquedotto? Forse la captano dei pozzi? Qualcuno la aspira con idrovore per bagnare le coltivazioni? No. Non c’è nessuno che coltiva in questa vallata, l’acquedotto lo prelevano in un'altra zona. Nessuno ha idrovore. E allora?

Allora lui una teoria ce l’ha: tutte le colline che si vedono da qui – mi dice – devi pensarle intensamente coltivate e non coperte di boschi come ora le vedi. E non solo questa vallata ma pure tutte le altre. Allora io penso che un albero consuma molta più acqua di una zolla d’erba, di una pianta di patate, di una rapa. E la pianta va in profondità, e succhia pure l’acqua delle falde più basse. Se no non si spiegherebbe la carenza perenne d’acqua. Noi qui una volta non abbiamo mai avuto il problema dell’acqua. È che in tutti questi anni il bosco s’è allargato, espanso a dismisura. Tutte le fasce a mezza costa, una volta poste a ortaggi o cereali, oggi sono invase da piante d’alto fusto. Quanta acqua beve un cerro di vent’anni in una stagione? E gli innumerevoli ontani (“verne”) che si trovano vicino ai corsi d’acqua?

Ha ragione. Tutto questo messo in relazione che il bosco, in Italia, negli ultimi anni, sta crescendo consente di fare una piccola speculazione: quanta acqua in più consuma il bosco italiano da cinquant’anni a questa parte? Tutti i nostri appennini sono coperti da piante che succhiano acqua che rendono all’atmosfera.

E la natura?

Da domani per lavarmi i denti invece che chiudere il rubinetto andrò in un boschetto a divellere alcuni rami…

giovedì 14 agosto 2008

Zingari!


Un amico mi chiede se so dove comperare martello e incudine per battere la falce. Lui ha provato a cercare ma i ferramenta in zona non l’hanno, o chiedono un sacco di soldi. Io lo so dove cercare: da Camillo, lo zingaro che abita vicino al ponte dell’autostrada, che raccoglie il ferro.

Sono passato di là l’altro giorno che non erano neanche le otto. Si aggirava pensoso nel suo regno di ferrivecchi. Gli ho chiesto se la bottega era già aperta. “Non c’è orario” mi ha detto sorridendo.

Gli ho spiegato cosa cercavo, cominciando a guardare per terra, tra le lamiere, se per caso avvistavo quel che cercavo. Lui ha detto che lo aveva, di aspettarlo lì. Infatti dopo una manciata di secondi lo sento gridare: “Sei fortunato!” e mi viene incontro con il puntone e il martello, proprio loro, proprio quelli che ho visto usare da tutti i miei parenti che oggi non ci sono più.

“Adesso però vieni a prendere il caffè, che più buono non l’hai mai bevuto”. Davanti alla baracca, un unico grande vano lindo e colorato, c’è un gazebo, posto tra roulotte e altre baracche. Sotto il gazebo c’è un tavolino, sopra una caraffa di acciaio, alla sua destra Teresa, già accaldata la mattina presto. S’alza e mi versa mezzo bicchiere di caffè già zuccherato in un bicchiere di carta, mi ricorda di passare di là a quell’ora, che un caffè c’è per tutti. Lo prende anche Camillo. Pago (poco), m’alzo e saluto tutti.

Due questioni:

Camillo ha questa roba perché muoiono i vecchietti, i figli o i nipoti lo chiamano a sgomberare, lui va e raccoglie. Però gli dispiace pure a lui gettare quella roba nel rottame, sia pure perché talvolta la vende a qualche sciagurato di passaggio, oppure solo perché ne percepisce il valore intrinseco che una pialla, un martello, una pinza può avere.

Sia per qualsiasi motivo è rimasto fra i pochi a salvare certe cose. Quelle cose che fanno parte della nostra cultura, delle nostre tradizioni, della nostra memoria.

Questi sono zingari? Si, oggettivamente lo sono. E perché NON possono essere ascritti agli zingari reclamizzati dai media? Quelli sporchi, ladri e farabutti, ladri di bambini, accattoni, approfittatori eccetera? Eppure delle due una: o gli zingari sono tutti così o i media ci raccontano delle balle, o per lo meno non ci dicono tutta la verità, oppure non sono abbastanza precisi.

venerdì 8 agosto 2008

uso e dosi della Costituzione


Sono stato a casa del mio amico Corrado, appassionato di serpenti. A casa sua abitano Giulia, le figlie, alcuni rettili di passaggio, un pappagallo, un cane, diversi gatti.

Appeso ad un chiodo, a destra della porta d’entrata della cucina, c’è uno spago. Allo spago è legata una copia della Costituzione della Repubblica Italiana. Non è una copia bella, da esposizione, in carta pregiata. Ricorda piuttosto uno di quegli elenchi del telefono che si trovavano nei bar della mia infanzia: logori, un po’ unti, con le orecchiette ad ogni pagina.

È lì per essere consultata, non come bandiera, simbolo o emblema con cui riempirsi la bocca.

E infatti la bella figlia diciassettenne, dall’elegante collo e dalla pettinatura curata, ha disquisito con naturalezza sull’interpretazione di alcuni articoli a proposito della ricostituzione del partito fascista.

Sono rimasto molto colpito, e favorevolmente, da questa cosa. La Costituzione andrebbe tenuta a portata di mano, ripassata, pure criticata e discussa, perfino modificata, ove occorra.

Ma bisognerebbe conoscerla, averla presente, sentirla viva e consueta, un oggetto di casa. Dovrebbe tornare verso il popolo, ovvero il popolo dovrebbe conoscerla. Prima che qualcuno la modifichi proditoriamente ove non occorra…

lunedì 4 agosto 2008

dico la mia (seconda parte)

In ogni caso la Lega per poter raggiungere le riforme (o le rivoluzioni) che aveva in animo ha deciso di accordarsi col potere, per raggiungere le leve e i bottoni che gli potrebbero consentire di agire.

Secondo grave errore.

Per accordarsi col potere ha dovuto abbandonare la sua via, la purezza, la genuinità e la semplicità che solo un movimento di popolo svincolato e libero può avere. Sono arrivati i professori, gli esperti, e la Lega ha cominciato a prendere la forma di un partito in cui predominava lo spirito protestante, piccolo borghese, e metteva da parte la protezione di uno strato sociale particolare, quella che viene chiamata retoricamente la “gente comune”, per rivendicare i diritti dei piccoli commercianti, piccoli imprenditori e artigiani: pagare meno tasse, agevolare licenziamenti, consentire maggiori libertà d’azione in materia di infortuni, progettazioni, commerci. La Lega è discesa a Roma e si è insediata nelle stanze dei bottoni. Al suo interno hanno trovato alloggio ex parlamentari che fino a ieri avrebbero combattuto. Siedono insieme a coloro che avrebbero dovuto combattere, contrastare. I politici della Lega hanno giurato nelle mani del presidente della Repubblica, salvo poi, il giorno dopo, riparlare di secessione, insultare simboli o emblemi o vessilli o canzoni. Solo più i giornalisti e i politici ottusi commentano il dito medio di Bossi sollevato contro l’inno d’Italia. Ricordo ancora una volta che in 26 anni, anziché passare alla Repubblica del Nord, si è passati da Lega Lombarda a Lega (e basta)…

Ricordo bene il primo incontro pubblico tra Bossi e Berlusconi, nella villa di Arcore. Il cavaliere accompagnava Bossi in visita al giardino della villa. Il Bossi s’era messo in canottiera, come dire: vedi? Io non mi preoccupo dell’etichetta, io sono popolare, io sono come te, che la domenica ti metti comodo perché fa caldo. E non ho una maglietta alla moda, ho invece una canotta di quelle che aveva tuo padre: ricordi? Perché io sono l’incarnazione di una tradizione popolare, pura e dura, che non si spaventa davanti al riccone, presidente o direttore che sia.

Io non credo che quella canotta sia stata un caso. E questo mi rattrista.

Quale futuro per la Lega?

Intanto il nome non si può più accorciare. Al massimo allungare, allora potrebbe diventare: “Lega dei popoli liberi del nord”, ma può essere che gli svedesi o i danesi, ma anche solo gli austriaci, preferiscano non avere a che fare con la Lega. Allora “Lega dei popoli liberi della Padania”, in ogni caso dovrebbe riuscire a stare fuori dal Popolo della Libertà in modo da fare la parte caustica e rivoluzionaria, popolare, dura e pura. Almeno nelle parole. Bossi potrebbe fare la sparata, Berlusconi potrebbe ridimensionare, nel frattempo il governo promulgherebbe una qualche legge, di quelle che sarebbe meglio far passare nel trambusto.

Continuerà a protestare la secessione, a insultare e far gestacci, finché non saremo tanto abituati da non farci più caso, come il matto del paese nel bar, quello che ce l’ha con tutti ma non fa male a nessuno.

Il vero problema saranno “i figli” di questo modo di fare politica pubblica, quelli che costruiranno un finto carro armato e daranno l’assalto al campanile di San Marco, quelli che, da sindaci, cacciano, strappano, inseguono. Quelli che diffondono odio, rabbia, livore, violenza. Quelli che disinfettano i vagoni ferroviari sui quali stanno viaggiando delle prostitute.

A seminare odio e inciviltà sono certo che non si mieterà mai una messe di pace, prosperità e concordia.

Di chi la responsabilità di tutto questo? In primis direi di Berlusconi, il quale ha percepito il potenziale di affermazione che una forza populista come la Lega può avere sempre. In secondo luogo dei dirigenti della Lega, che da movimento popolare l’hanno traghettata verso le poltrone comode, allineata e coperta di fatto rispetto ai detentori del potere. In terzo luogo della sinistra consolidata, quella tradizionale, quella che nel PCI aveva la faccia dei grandi funzionari di partito, che hanno trasformato progressivamente il PCI in un partito moderato, pacato, perbene, non rappresentativo di nessuna classe o categoria sociale, per il “bene comune” e quindi (infine) vuoto di senso. Questa sinistra non ha capito quanto valesse essere presente nelle case, tra la gente, nelle fabbriche. Quanto fosse importante NON avere la macchina di lusso, il cellulare ultimo modello. Me lo ricordo benissimo quel momento, durante una trasmissione di Milano-Italia, con Gad Lerner, ospite, fra gli altri Michele Serra. Sarà stato il 92 o 93, forse dopo ancora. Dalla platea si alza un giovanotto coi capelli corti, in giacca e cravatta di buona fattura, parla un italiano perfetto, televisivo. Enuncia una serie di osservazioni (che non ricordo neppure) e conclude dicendo di essere un iscritto dei PDS. Michele Serra ringrazia per le domande e premette che se il giovanotto non avesse detto chiaramente di essere un iscritto del suo stesso partito lui non l’avrebbe capito, l’avrebbe anzi considerato come un antagonista politico. Forse tutto questo, concludeva Serra, è un segno dei tempi che stanno cambiando. Era proprio così: a parlare di sinistra non c’era un operaio, un bracciante, un sindacalista appena uscito da un turno di lavoro, ma uno studente già destinato ad essere manager, libero imprenditore, funzionario.

Quando a Torino sono in scesi in piazza gli impiegati e i funzionari, i medi e piccoli borghesi della FIAT per rivendicare il loro diritto a farsi sentire, qualcuno a sinistra ha pensato che anche quello era bacino elettorale e bisognava fare qualcosa per recuperarlo. Questo qualcosa ha compromesso la sinistra, l’ha fatta sentire autorizzata a mettersi sul mercato, a confrontarsi a colpi di giacca e cravatta, auto lucide, occhiali firmati. E invece quello era il momento per invitare la sinistra a ritrovare per davvero le sue radici, per guardare al passato e pensare al futuro. Il lavoro, l’emigrazione, la comprensione e compassione, l’impegno e la dignità personale, la soddisfazione di farcela da soli e di aiutare gli altri, di non dipendere da nessuno se non dalla propria forza e di sapere che si può contare su tutti gli altri. Studiare davvero la storia, non dietro miti vaghi e vuoti, ma entrando negli archivi, raccogliendo le memorie di chi ha vissuto i grandi eventi, insegnando a non dare retta alle sirene televisive o giornalistiche. Senza partire con una teoria da dimostrare, ma pronti ad accogliere le nuove visioni, le nuove interpretazioni che si scoprono man mano. Occorreva combattere una battaglia culturale contro il libero mercato moderno, negli anni ottanta c’erano le strutture per farlo: ogni paese una sede del PCI avrebbe potuto ospitare interventi, documenti, serate di studio pensate per valorizzare quel che in quel luogo c’era di buono, da presentare come antagonista, come modello di vita rispetto alla performances, al successo, agli “yuppies” tanto rampanti da lì a poco.

Terminata l’illusione di un mondo fatto di dirigenti, alti impiegati, di signori, ci siamo risvegliati nel “neoliberismo”, svuotati da (quasi) tutti i NOSTRI contenuti, pieni dei desideri che altri ci avevano, hanno imposto. Ed è stato così che alcuni figli di papà, eredi di cospicui patrimoni, colti più volte a combinare cose perlomeno ridicole e illegittime, insegnano a noi un modello di imprenditorialità. A noi, figli di miti contadini che con quattro vacche e un pezzo di terra hanno cresciuto una famiglia di dieci persone, quel personaggio stiloso non avrebbe niente da insegnare, se non avessimo perso quello che nostro nonno e bisnonno ci hanno insegnato.

E la Lega sale nei sondaggi. Anche adesso che, nella persona del ministro dell’interno, interviene con forze di polizia in armi sulla gente di Vicenza oggi, sulla gente valdostana contro la TAV domani. E il territorio? La protezione del territorio? Dov’è? Che fine fa?

Non so se è giusto ampliare la base militare di Vicenza, non so se è giusto far passare l’alta velocità qui o là. So che la Lega dovrebbe stare da una parte precisa, e non ci sta. Non solo: è dall’altra parte della barricata.

sabato 2 agosto 2008

Dico la mia (prima parte).

La prima volta che ho sentito parlare di lega credo sia stato la fine degli anni ’80. Erano un gruppo di giovanotti che si riconoscevano in una bandiera in cui era rappresentato il leone di San Marco. Assomigliavano molto a dei tifosi di una squadra di calcio e il loro senso di appartenenza proveniva dal fatto che si ritrovavano e riconoscevano veneti fuori di casa. Eravamo infatti a Napoli, durante il servizio militare.

Provavo simpatia per loro: non erano particolarmente violenti o superbi. Avevano legato (appunto) tra loro, stabilendo così un confine non tracciato tra il resto del mondo e la “lega”. Non accadeva nulla di particolare, non erano un’associazione a delinquere, non si facevano particolari favori (non più di quelli che si facevano tra amici) e guardavano ai “terroni” con una certa indulgenza, talvolta pure con simpatia o amicizia.

Insomma: era il fatto di appartenere al Veneto che li faceva veneti, non tanto quel che erano o non erano tutti gli altri.

La Lega Lombarda (come movimento politico) era già nata nel 1982, e la Lega Nord, come partito e coordinamento tra le varie leghe (lombarda e veneta innanzi tutto) è del 1991. Sono quindi 26 anni che i suoi dirigenti (Bossi, storico leader insieme ad altri) predicano la secessione del nord e la Repubblica Lombarda. Di strada oggettivamente ne è stata fatta e bisogna riconoscere alla Lega di aver portato all’attenzione di politici e costituzionalisti la possibilità di una diversa suddivisione dell’Italia: macroregioni, federalismo o perlomeno federalismo fiscale. Tutti argomenti “nuovi”. D’altro canto il fatto che un movimento politico tenda a usare una certa violenza verbale o gestuale minacciando secessioni da 26 anni è una cosa che muove al sorriso.

Le istanze di base, originarie della Lega erano pure comprensibili, talvolta condivisibili. Si trattava, se non ricordo male, di riconoscere la bontà delle proprie radici, tradizioni, produzioni caratterstiche. Non tanto per rivendicare una certa superiorità del nord, quanto per ridare una dignità alla gente comune, dopo che l’uragano consumistico aveva cominciato a distruggere con violenza modelli e consorzi umani formati nei secoli. Dagli anni sessanta cominciano ad essere diffusi modelli e comportamenti imposti e voluti dai media. La vita si complica ed è necessario avere un auto, una moto, un frigorifero, una lavatrice. È indispensabile saper parlare bene in italiano, tanto che il dialetto viene oppresso: ai figli, da quegli anni, si parlerà italiano, per abituarli fin da subito alla lingua nazionale, per non patire discriminazioni. Il cibo, dopo tanti anni di fame e dieta sempre uguale, diventa cibo straniero, inusuale e perciò migliore del cibo “nostrano”. Si compra tutto nelle botteghe, anzi: nei supermercati, dove si celebra il definitivo tramonto di un epoca e il sorgere della nuova era industriale e distributiva: le famiglie cessano di essere centri di produzione e diventano solo più centri di consumo. Molti autori si sono occupati di questa trasformazione, della perdita di dignità che si nascondeva dietro ad un formaggio col marchio famoso, dietro all’esigenza dell’auto, dietro alle parole ricercate e “giuste”, dietro alla forma e ai contenuti di abitazioni sempre più lontane dalle esigenze abitative reali, ma coerenti con il disegno superiore e comune di una produzione su larga scala delle case, dei mobili, degli arredi.

La Lega arriva quindi ultima a occuparsi di questa perdita di dignità, dopo che alcuni hanno individuato l’avversario contro cui lottare nel capitalismo selvaggio, nell’anarchia di mercato e nelle conseguenti trasformazioni delle masse (recentemente mi vengono in mente Pasolini o Vittorini, ma già prima se n’era parlato). La Lega sa di essere popolare, di dover essere popolare, per questo non può seguire ragionamenti troppo complessi ed elaborati. Ha bisogno di sillogismi immediati, rapidi e soddisfacenti. Ha bisogno di identificare un nemico. E comincia col sud, col sud in genere, cavalcando quel razzismo che aveva tanto sèguito proprio a partire dagli anni sessanta, dalle grandi migrazioni nelle fabbriche del nord. Il nemico è al sud, succhia le nostre tasse, non fa nulla, noi lavoriamo e lui gongola (su questo argomento sarebbe interessante raccogliere tutte le cose che si dicevano nei riguardi dei “terroni”, cose che ricordo bene anch’io: sporchi, puzzolenti, pieni di figli, ladri, mercanti di droga, facili al coltello, incapaci, tra qualche anno saranno tutti di loro… e che oggi, pari pari, si dicono di africani o asiatici). Nel giro di qualche anno il nemico si è spostato. “Roma ladrona” è diventato uno degli slogan più gettonati, anche se a Roma, adesso, ci sono seduti proprio loro. In effetti il “nemico” è diventato l’extracomunitario, oppure anche il comunitario ma di chiara provenienza zigana, come se rumeno fosse uguale a rom… In ogni caso da lombarda è diventata Lega Nord per rimanere Lega e basta.

In ogni caso la Lega si fa portatrice e rappresentante di questo diritto al riconoscimento di un certo orgoglio delle proprie tradizioni, usi, costumi e linguaggi. Noi del nord, sembra dire, abbiamo radici antiche e nobili: lavoro, fatica, onestà, pulizia, libera impresa, rettitudine morale. Noi del nord non siamo donnicciole, meno che mai omosessuali, pigri, banali impiegatucci frustrati. Noi siamo sani e forti, lavoratori irsuti e muscolosi dalle indubitabili virtù sessuali (“Celodurismo”). Siamo un popolo generato da un territorio fertile e ricco che noi stessi, con il nostro lavoro, avremmo potuto trasformare in un Eden, se non fosse per qualche disturbatore (politico romano, terrone, extracomunitario).

Negli anni la Lega ha dovuto allora costruire una serie di miti e leggende, di rituali, atti a dimostrare che questo popolo generato dal territorio esiste, che il nord Italia, la Pianura Padana, sono un ente territoriale preciso e storicamente identificabile. Era indispensabile per dare coerenza ad un progetto politico e sociale.

Ed è stato il primo, grande errore.

Poiché la padania non esiste, perché il dialetto non è una lingua, perché la gente che vive nell’Italia settentrionale deriva da incroci di persone provenienti da una larga parte del mondo, come tutti. Perché il Po non è una divinità in cui si possano riconoscere gli abitanti del nord Italia (oltre a non essere, di fatto, una divinità), perché l’acqua raccolta alle falde del Monviso e liberata nel delta è un bel rito, molto spettacolare, ma vuoto di senso.

È vero invece che bisognava difendere la dignità delle persone dall’assalto frontale del comunismo di stato e dal capitalismo spietato prima, dal mercato anarchico oggi.

Un esempio:

Mia zia. ha molti anni, da sempre fa la contadina. Quando la vado a trovare mi offre cibo e caffè, poi mi invita a seguirla nella stalla, dove mi mostra le vacche e il vitellino ultimo nato. È orgogliosa, felice di avere un vitellino così bello nella stalla.

Poi passo a salutare suo figlio, che abita poco lontano. È molto gentile anche lui. Dopo il caffè mi invita in garage e mi mostra una lussuosissima auto lucida, tanto reclamizzata in tv. Ne è orgoglioso. Prima di andar via chiacchiero con sua figlia, la quale mi mostra l’ultimo modello di telefonino: una scatoletta colorata capace di fare cose di cui si può fare a meno.

Essere orgogliosi della propria vacca o della propria auto? Si capisce l'abisso che divide le due visioni?

Non critico la persona o l’automobile, critico un sistema economico che ci vuole proni, passivi di fronte al mangime che ci viene confezionato e consegnato senza che ci colga neppure il dubbio di poter scegliere. Aumenta la percezione di libertà (puoi scegliere il modello di auto o il piano tariffario telefonico che preferisci, ma non puoi fare a meno dell’auto o del telefonino) ma diminuisce la possibilità di scegliere.

domenica 20 luglio 2008

Notte in fabbrica


http://amarenco.blogspot.com/search?q=laminatoio

A questo indirizzo, sul questo blog, avevo già parlato della situazione.

Stasera è sabato, anzi, è già domenica. E io con Patty e Gianco siamo stati “precettati” per la chiusura della stesa, che questa settimana s'è protratta oltre il previsto.
Mully e Paolino si sono fermati fino alle 23,00.

Io ho ripulito lo svolgimento, scopato a terra, ritirato la rumenta. Poi ho aiutato gli altri a scaricare un asse di pellicola ancora in macchina. Poi sono salito con Patty vicino all'estrusore. Ho smontato e portato via i filtri sporchi. Ogni filtro un colore, pensavo: il verde dei boschi delle foto delle vacanze; il giallo di un vestito nuovo; il blu di un cielo dietro a una coppia che sorride. Butto via brani e brani di ricordi, giù nello scarico. Poi con Patty abbiamo scovolato e ripulito dalle macchie. Siamo andati a prenderci un caffè, a mangiarci un panino. Giancu era tutto sudato e stanco morto: sta mettendo su casa e talvolta non dorme di giorno.
Dopo il caffè siamo tornati in sala, abbiamo chiuso l'acqua e chiuso l'estrusore nel suo involucro. Patty, prima di chiuderlo, mi ha chiesto di guardarlo bene: “Vedi? È intero, no? Se dovessero chiedertelo l'hai visto che noi l'abbiamo messo via intero e pulito, giusto?” Si, è giusto, gli ho detto.

Patty è un tipo preciso. Sempre stato così. Lui è nato a Ferrania da genitori che lavoravano a Ferrania, ha lavorato sotto impresa nella Ferrania e poi finalmente ci è entrato. Ed è diventato estrusorista, come dire macchinista in ferrovia, o tornitore in una officina. L'estrusore è (era?) un bancone di inox con numerose fessure dalle quali scaturisce l'emulsione fotosensibile che viene stesa sul supporto di triacetato. Il lavoro di Patty è un po' da litografo (pulizia, precisione, sensibilità al tatto, esperienza) e un po' da ladro, nel senso che come un ladro, al buio, “sente” le prede, ovvero certi difetti. Lui nel buio totale, nel frastuono di mille motori, sente un fruscio che lo fa balzare all'emergenza. Ha sempre lavorato bene, coscienziosamente. E continua anche stasera, dopo vent'anni di fabbrica.

Nelle pause caffè ti racconta storie di pellicole, difetti, strappi, problemi superati brillantemente e altri irrisolti, con la stessa malia di un lupo di mare. E si resta incuriositi e appassionati, perchè non è tanto questione di contenuti ma di passione nel racconto. Fa venire in mente gli operai di Primo Levi, la tecnica, la tecnologia, l'esperienza e la “hyle”, il gobbo maledetto, la pervicace, muta, ostinata contrarietà della natura a che le cose non vadano come si vorrebbe.

Già, è la solita storia raccontata da Melville, o da Hemingway.
Comunque la notte è passata anche stavolta, le ciglia bruciano e si ha solo più voglia di andare a dormire, magari dopo un bel pezzo di focaccia.
Da laggiù, oltre le ciminiere e i capannoni vuoti, il cielo si schiarisce. È luglio e albeggia presto. Ci avviamo al timbro. Poi al cancelletto d'uscita, scatta il tornello dietro di noi.

Una notte normale è appena passata, se non fosse che forse è l'ultima di Ferrania. Era dal 1923 che questo stabilimento produceva pellicola, e bene anche.

E il bello è che quel prodotto si produce e si vende ancora...

Ma poi mi chiedo: cos'è che ci spinge a fare fino alla fine le cose per bene, coscienziosamente? Anche quelli più scalmanati, disfattisti, da cui potevi aspettarti perfino qualche stupidaggine. Niente neanche loro. Hanno fatto quello che dovevano, hanno timbrato e sono tornati a casa.

Due degli azionisti se ne sono andati dalla società che controllava Ferrania. Loro, mi pare, si sono comportati peggio di noi.

sabato 5 luglio 2008

La Lega e il falso localismo


Come già capitato ho ricevuto una mail che meglio non avrei potuto scrivere, e della quale (serve dirlo?) condivido il succo e la forma.

Motivo per cui la trascrivo tal quale, col permesso dell'autore: Davide Montino, a me carissimo.



Come tutte le cose, anche il fenomeno leghista, dopo quasi trent’anni, merita di essere analizzato con calma e ragione. In primo luogo bisogna liberarsi da quello che la Lega stessa dice di sé: essa si fa paladina del Nord, ma soprattutto del territorio, del locale, della comunità, delle tradizioni etc…

Se leggiamo i documenti, i programmi, i giornali, ma anche i manifesti elettorali, gli spot televisivi, e li aggiungiamo alle esternazioni dei rappresentanti politici leghisti, abbiamo però un altro quadro. In realtà la Lega rappresenta, in piccolo e relativamente a un territorio preciso, l’ideologia nazionalista così come si è determinata nel ‘900. Sono gli stessi schemi e gli stessi valori.

- La Lega, al pari delle nazioni, si inventa una tradizione (dal Dio-Po alla battaglia di Legnano, dai miti celti ai dialetti-lingua).

- La Lega, al pari delle nazioni, non riconosce una cultura ed un pensiero universalisti: questo è un punto importante, perché solo in un insieme di valori universalmente riconosciuti è possibile la difesa del locale: si pensi al tanto lodato medioevo, ci sono comuni e signorie, mille campanili, ma la condizione perché esistano è proprio l’universalismo cattolico medievale, l’ecumene cristiana, una sola lingua (il latino), una sola fede (cristianesimo), un solo impero (il Sacro romano)

- La Lega, come le nazioni, è esclusiva, tira su confini e limiti, controlla chi entra e chi esce. Un’Europa fatta di regioni, di comunità e di territori può esistere solo senza confini, con la circolazione delle persone.

- La Lega, come le nazioni, fa politiche linguistiche aggressive (i cartelli in dialetto, addirittura insegnare il dialetto a scuola…)

- La Lega, come le nazioni, si costruisce una sua storia e i suoi miti.

- La Lega, come le nazioni, abolisce l’idea di una società articolata in ceti o classi, ma pensa la comunità come un insieme interclassista.

La Lega, infine, tendenzialmente non tollera il pluralismo; come le nazioni, tende ad escludere dal riconoscimento politico chi non si identifica in modo unitario con i suoi valori. Provate a chiedere ad un leghista se, in un futuro di indipendenza per il Nord, nel Parlamento padano, ci sarà posto per un Partito comunista o Radicale…

Questi brevi punti mostrano l’equivoco. La Lega non rappresenta la dimensione del futuro localismo, ma è l’inquadramento politico di un egoismo che si confonde con il territorio. Essa rappresenta in piccolo un’ideologia nazionalista, basterebbe sostituire alla parola Nord la parola Italia o Francia per vedere la similitudine. E’ un blocco di potere, tant’è che si è insediata da 15 anni a Roma, e l’unica prospettiva culturale che propone è il federalismo fiscale ma non ha nessuna visione di una articolazione amministrativa e politica locale.

Insomma, la Lega è una presa in giro proprio per quelli che credono che il futuro sarà fatto di locale e di territorio, di comunità circoscritte e con una forte identità, nel quadro di un mondo sempre più interconnesso, unito, globalizzato.

martedì 13 maggio 2008

il minestrone del supermercato: un altro esempio

«Aviere Faedda Mario. Rsi Fenu Antonino. Soldato Fois Paolo. Partigiano Foriesi Giuseppino». «Alghero ai suoi caduti, che donarono la vita perché l'Italia fosse libera e giusta».

Questo il testo di una lapide che il sindaco di Alghero avrebbe fatto affiggere per onorare i caduti, caduti tout-court, soldati di ogni schieramento, perchè entrambi avrebbero dato la vita per una Italia libera e giusta.

E' vero, no? Anche se libera per un fascista non coincide con la stessa visione di libertà di un partigiano (cattolico, laico, GL, badogliano autonomo, mica solo comunista).

Che tristezza! Che pena! Che scoramento!
Possibile che possiamo solo più essere pleonastici e ripetere cento volte al giorno delle verità storiche, dei giudizi consolidati e assodati, dobbiamo rimarcare delle differenze tanto ovvie da sentirci stupidi?

Quindici giorni fa un amico, una persona seria, lavoratore, famiglia, vita tranquilla, mi spiegava che i partigiani erano tutti briganti.
Semplice.
C'è possibilità di ribattere? Come faccio a dirti che le cose sono più difficili di come te l'hanno fatte capire? Che non ti puoi soddisfare di quelle 4 stupidaggini prese al volo. Ragiona, cazzo!

Dovrei farti sedere e raccontarti quello che so dal principio? Come fossi un maestrino e tu un allievo? Devo chiederti che scelta avresti fatto tu, dopo l'8 settembre? In Germania con la "Monte Rosa" o sulla Langa con Fenoglio?
Fenoglio, Nuto Revelli, Rigoni Stern (che per non firmare s'è fatto il lager) erano briganti? Possibile?


E sarà peggio...

lunedì 12 maggio 2008

un racconto

Gentili amici
Ho scritto una certa vicenda, piena di verdura, erudizione e speculazioni (non solo filosofiche).
E' una palla mostruosa corrispondente a un libro di circa 140 pagine.
No, dai, non è mostruosa...
Se siete interessati a ricevere il mio racconto scrivetemi a questo indirizzo (senza mettere allegati!!) e sarete presto accontentati: mareale@nospamlibero.it
Vi avviso che il racconto vi arriverà come allegato .pdf da circa 500 Kb.
Un bel saluto a tutti
Marenco

giovedì 8 maggio 2008

Ancora una lettera

Ed è molto dolorosa. Largamente condivisibile.

Anche qui la trascrivo facendola mia.

"Sono incazzato!

Sono incazzato perché 60 anni di Repubblica e di Democrazia non hanno educato ai sani principi e alle nobili virtù repubblicane e democratiche, perché questo paese non ha saputo e non ha voluto dire una parola chiara e netta contro il fascismo, perché non se ne è sbarazzato come avrebbe dovuto! E lo sono ancora di più se penso alle colpe della scuola e dell’educazione, a quelle dell’informazione e della manipolazione continua dell’opinione pubblica! Lo sono quando al mattino mi alzo e vedo i naziskin che sfilano e picchiano, le lapidi alle fosse ardeatine divelte, i saluti romani dei camerati al loro nuovo sindaco! E mi incazzo quando il Partito comunista italiano, che ha – storicamente – fatto la democrazia in questo paese, quella stessa democrazia che permette (e non dovrebbe!) ad un naziskin di esprimere la propria visione politica, viene additato come il male assoluto, l’origine di tutte le colpe. E sono incazzato quando le classi dirigenti di quel PCI, invece di difendere il lato nobile della loro storia, buttano via l’acqua sporca col bambino, tradizioni di giustizia, equità e solidarietà sprecate in nome di quella giusta critica allo stalinismo che però andava fatta 50 ani fa!!

E non sopporto il qualunquismo di questa Lega, l’arroganza di questi giovani padani, le ronde e gli egoismi di ceto…. E non li sopporto perché stupidi e volgari, ma soprattutto senza ragione e scopo, e perché sono false soluzioni ad altrettanto falsi problemi!

Sono incazzato perché manca senso civico, senso del pubblico, senso del bello, perché tutto si traduce in un “familismo clientelare” senza morale, perché domina la paura, la rassegnazione e l’indignazione contro noi stessi – che pure ci abbiamo creduto e ci crediamo – anziché contro tutto ciò che di sbagliato c’è in questa cultura di destra che soffia su angosce e timori, piena di falsi miti e satura di revanscismi!

Ma sono soprattutto incazzato perché intorno a me vedo masse inermi, senza spina dorsale, senza idee, uomini mediocori, senza utopia, speranza, ideali… vedo plebi senza indirizzi, vuote ed ottuse, appagate solo nei sensi superficiali… e perché non vedo elites degne di questo nome… dove sono finiti gli uomini migliori? Quelli che ragionano, si informano, studiano prima di fare o parlare? Possibile che resti solo la rabbia della ragione? La forza inespressa del sentimento buono? Verità, Giustizia, Ordine, Bene, Bello sono concetti puri, che hanno bisogno di fatica per essere individuati e difesi, non sono merci da mercanteggiare o contrabbandare!!!

Sono amareggiato di vivere in un perenne qualunquismo senza profondità, senza elevazione, senza metodo e senza ordine, circondato da falsità e menzogna che si spaccia per politica!!! Da politici che si spacciano per uomini, ma che uomini non sono!"

mercoledì 23 aprile 2008

Docente universitario... quasi...


La storia è tanto curiosa da esser perfino buffa. Antefatto: l'anno scorso ho girato e montato un filmato di un quarto d'ora in cui mostravo le vecchie case nei boschi di Giusvalla, diroccate e abbandonate. Ho messo una musica malinconica sotto, ho abusato con le dissolvenze incrociate, ho aggiunto didascalie. Ne è venuto fuori un lavoretto commovente, piacevole (almeno per me). Ne ho distribuito qualche copia agli amci, come faccio di solito. Ho ricevuto parole gentili da alcuni.

Uno in particolare insegna storia al DAMS di Imperia. Dice, fa: "Vieni a parlarci del tuo lavoro in aula?". Dico: "Chi?". Dice: "Te!". Dico: "Te, chi?". Dice: "Te, te! E basta!"

Insomma, per farla breve ieri sono stato al DAMS a Imperia (bel posto, tra l'altro) a vedere insieme ai 6 curiosi studenti del corso di storia il dvd in questione, a parlare di narrazione della storia, di fonti, di territorio, di memorie.
Ci sono state osservazioni interessantissime, sono stati molto gentili tutti ed hanno trovato dei particolari a cui io non avevo pensato (c'è da dire che la presenza del professore, il quale ha tessuto i miei elogi prima della proiezione, ha indicato ai signori studenti una via da seguire...). Hanno parlato di originalità, di dolcezza, malinconia. Una ha trovato un legame con gli "Ossi di seppia", circa lo sgretolamento della memoria. Bontà sua!

E va bene: un altro buon motivo per i miei ascendenti che riposano ad aeternum di dare un bel rivoltone là nel rispettivo avello: "A parlare di cosa sei andato? A far vedere cosa? E t'hanno dato a mente? Dì giuro?".
I miei genii contadini non sono costumati a certe cose. E manco si costumano...

Comunque bella esperienza, proprio bella.


lunedì 21 aprile 2008

Le ultime notizie


La Fao, presentando il rapporto trimestrale di previsione della produzione di cereali nella persona di Jaques Diouf, il direttore generale della Fao ha affermato:

Anche se l’offerta di cereali aumenterà, i prezzi non caleranno, la domanda di cereali è in aumento e le scorte al minimo. Occorre prendere decisioni ad alto livello politico, con capi di Stato e di governo.

L’aumento dei prezzi è dovuto alla domanda sempre crescente e al progressivo esaurimento delle scorte. Nel 2007 il prezzo del riso ha registrato l’aumento maggiore. Alla fine di marzo i prezzi del grano e del riso erano circa il doppio rispetto all’anno precedente, mentre quelli del mais erano aumentati di oltre un terzo. La Fao denuncia scontri in diversi Paesi, come Egitto, Camerun, Costa d’Avorio, Senegal, a causa dei forti aumenti dei prezzi del pane, dei prodotti a base di mais, del latte, dell’olio, della soia e di altri prodotti alimentari di base, nonostante le misure di controllo dei prezzi prese dai governo locali. Inoltre la riduzione della terra coltivabile e dell’acqua per l’irrigazione a causa dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione, la domanda in crescita di carne e formaggio da parte delle classi medie urbane dell’Asia (che porta alla riduzione delle coltivazioni di riso), i danni ai raccolti provocati da inondazioni in Indonesia e Bangladesh e dal gelo in Cina e Vietnam.

"Stiamo consumando più di quello che stiamo producendo" ha detto alla Bbc l’economista agricolo dell’Irri Sushil Pandey. Le scorte mondiali di cereali, secondo l’Organizzazione Onu per l’agricoltura e l’alimentazione, dovrebbero perdere ancora il 5% entro la fine dell’anno, raggiungendo nel 2007-2008 i 405 milioni di tonnellate, il volume minore degli ultimi venticinque anni e ben 21 milioni di tonnellate in meno rispetto al livello già assai ridotto dell’anno precedente.

La fame è un problema del mondo, non solo di uno stato africano, asiatico o sudamericano. Prima di tutto perché non è giusto che oggi, a questo mondo, qualcuno abbia fame, e in secondo luogo perché chi ha fame cerca di togliersela, perché la fame, prima di rendere esanimi, causa la perdita della dignità degli uomini e delle donne. E non è un bel mondo.

martedì 15 aprile 2008

Ho ricevuto una lettera

E la trascrivo tale quale, perchè vale la pena.


...a pensarci bene un risultato, e bipartisan, lo hanno ottenuto (Berlusconi e
Veltroni)... Finalmente un parlamento senza socialisti e comunisti, ossia senza
espressioni critiche di dissenso (magari pure sbagliate, ci mancherebbe...) o
semplici "diversità"; il processo di omologazione, e quindi semplifcazione e
banalizzazione della rappresentanza politica direi che è a buon punto. Ciò che
è pericoloso è proprio questa mancanza di articolazione dei problemi e delle
soluzioni, perchè un paese non può essere fatto di due blocchi monolitici, o
sbaglio? E non può esserlo perchè è la realtà stessa a non permetterlo. Ma cosa
c'entra a questo punto la realtà, quando nemmeno abbiamo potuto scegliere un
uomo piuttosto che un altro? E siccome sono un nostalgico mi viene in mente
una frase di Rosa Luxemburg: "La libertà è sempre soltanto la libertà di chi la
pensa diversamente. Non per fanatismo di giustizia, ma perchè tutto quanto vi è
di istruttivo, di salutare, di purificatore nella libertà politica dipende da
questo principio, e perde la sua efficacia quando la libertà diventa un
privilegio" .

Sottoscrivo come se l'avessi scritto io, ma non ne sarei stato in grado...
M.A.

domenica 30 marzo 2008

sanità pubblica e privata

Io e un mio amico abbiamo avuto l’otite (l’ha stabilito un medico). Stessi sintomi, niente di grave o di insopportabile. Si tratta di un fastidio quasi doloroso all’interno dell’orecchio, come ci fosse entrata l’acqua.

Il mio amico ha preso un appuntamento ed è andato a farsi visitare da un medico “privato”, presso cui ha speso 100 euro. Ha avuto regolare ricevuta.

I locali erano sporchi e usurati, molte persone in sala d’attesa. Ha dovuto aspettare mezz’ora. L’ottorino “privato” l’ha visitato attentamente e gli ha fatto pure un esame audiometrico. Gli ha prescritto cortisonici per ridurre l’edema. L’otite è rimasta.

Io ho voluto provare a fare la stessa visita con la vecchia, cara “mutua”. Ho aspettato 15’ per prenotare allo sportello ASL (avrei potuto telefonare, ma avevo tempo) e pagato 20 euro. Ho dovuto aspettare una decina di giorni. Sono andato all’appuntamento in orario e sono passato subito. Il medico mi ha dato un’occhiata e ha capito subito. Mi ha prescritto cortisone per aereosol e acetilcisteina per fluidificare il muco.

Io ho quasi risolto, il mio amico comincierà domani a fare insufflazioni in ospedale (tutte le mattine prima delle 8,00).

Attenzione a criticare la sanità pubblica, può essere che ogni tanto abbia qualche pecca ma intanto c’è. Quando non ci sarà più ne sentiremo assai la mancanza. In ogni caso, per quel poco che ne so, funziona eccome, la sanità pubblica…

Un’ultima notizia appresa oggi, che c’entra solo parzialmente: l’85% dei malati ha l’11% delle spese mediche (sud del mondo), il 15% dei malati ha l’89% delle spese mediche (mondo “civile”).

La malattia è una percezione e come tale è influenzabile dai mezzi di comunicazione. Dobbiamo rassegnarci: siamo tutti malati, abbiamo tutti carenze, “dobbiamo” prendere almeno una pillola al giorno, per qualsiasi cosa. Se la sanità diventasse interamente privata, se ci fosse una sanità pubblica solo per l’emergenza o per l’indigenza si finirebbe molto più male di oggi. Pensiamoci bene, ma bene!

martedì 4 marzo 2008

A causa dell'ignoranza



Impieghiamo risorse cospicue per cose inutili. Sprechiamo tempo a NON imparare niente. I nostri amati politici riescono a impastare sempre le stesse cose, i giornalisti ripetono i concetti senza “speculare” senza ragionare, senza pensare, abituandoci ad usare le parorle senza senso, parole-forma senza contenuto.

Sono morti uomini in Puglia sul lavoro. Uno è entrato in una cisterna, è crollato, altri sono scesi per aiutarlo, sono crollati anche loro.

I giornalisti (tutti, dalla carta stampata a quelli di RAI 3) hanno ripetuto che la causa era nelle “esalazioni dello zolfo” che la cisterna aveva trasportato.

Ora: lo zolfo noi no lo conosciamo più. Lo conoscevano i nostri nonni: si usava in campagna nelle vigne e si usava incendiarlo per scacciare le tarme dalle botti, come antibatterico generico. Addirittura si gettava nelle tane delle volpi per stanarle e ucciderle. Non è mai successo che lo zolfo, da solo, avvelenasse o uccidesse qualcuno. Lo zolfo, di per sé, non esala proprio niente.

Quindi le cause sono complesse: la cisterna è un luogo chiuso, non circola aria, come in un pozzo; lo zolfo è una sostanza chimica che reagisce volentieri con l’ossigeno generando anidride solfidrica o solforosa. Le anidridi nell’acqua generano gli acidi (solforico, solfidrico etc.).

La realtà è più complessa, ecco la questione. E noi siamo ignoranti.

Paolo del Debbio su Canale 5 diceva che con una mascherina magari si sarebbe potuto evitare… Ma la mascherina non basta! La mascherina serve per la polvere (e si vedono persone che la mettono per evitare la diossina generata dall’immondizia che brucia: inutile!), la maschera antigas con il filtro per vapori organici (quella facciale) serve solo all’aperto, dove ci sono basse concentrazioni di gas o vapori velenosi o asfissianti. È inutile questa maschera dentro un pozzo, dentro una cisterna o un pozzo. I vapori (o gas) si possono presumere (principio di precauzione) in concentrazione elevata. Per entrare in luogo chiuso serve un autorespiratore, cioè una maschera antigas che, anziché avere il filtro, è collegata alle bombole.

Usiamo spesso ammoniaca, ipoclorito, tensioattivi, soda caustica, e non sappiamo quali pericoli celano questi prodotti. E perdiamo tempo prezioso a seguire le vicende di Costantino, del tanga o del boxer, di Veltroni o Berlusconi. Delle esumazioni di santi…

Il nostro mondo è sempre più complicato e l’analisi dei rischi, palesi e occulti, deve essere sentito come un dovere da tutti. Siamo circondati dalla chimica, la viviamo, la respiriamo, ne facciamo parte. Perché non ce ne occupiamo?

“Beati gli uomini di buona volontà, ma guai a fidarsi dei soccorritori dotati SOLO dalla buona volontà” lo scriveva Primo Levi tanti anni fa. Non è cambiato niente!

bisogna esser giovini...


Per fare le cose bene bisogna metterci passione. Sia per affrontare un nuovo lavoro, sia per scrivere un libro, una storia, un saggio, una poesia; sia per mantenere un blog aggiornato, per imparare a usare un nuovo programma, una nuova macchina. Bisogna essere adolescenti per conoscere e incotrare le persone, per avventurarsi, sperimentare, mettersi in gioco. Il pardadosso è che l’adolescenza passa presto e uno è distratto da tante cose, ed è difficile restare attenti, prestare attenzione alle cose che importano davvero. Ed è importante prestare attenzione perché quello che impari in quella decina d’anni ti accompagna tutta la vita, sarà scheletro e muscolo. Poi l’allenamento te lo fai, ma se non costruisci bene nell’adolescenza non farai miracoli a quarant’anni.
Ho letto libri, suonato e imparato musica, ho amato, ho visto film, parlato con persone, ho provato a fare un po’ di tutto, parlare con tutti, litigare, appassionarmi a persone, concetti, idee, progetti.
Tutto ha avuto il suo peso, tutto ha insegnato a me qualcosa (insegnato=lasciato il segno). Dopo, quando l’adolescenza è sicuramente terminata da almeno una quindicina d’anni (con sporadiche fiammate, almeno a livello di stupidità cerebrale) uno si accorge di quanto sia prossimo all’inutile (salvo per il godimento personale) il leggere, l’ascoltare musica, lo scrivere, il credere a ideali, il progettare, parlare con gli altri. Non dico che non vale, dico che tende a 0.
Quant’è vero che i partigiani migliori sono stati ragazzi, magari adolescenti quasi maturi, ma giovani. Avventurosi, appunto, e disponibili anche a commettere ingiustizie, indulgenti con sé stessi, intransigenti col mondo. Se lo potevano/possono permettere.
Ora ho 42 anni, mi addormento se il libro non mi colpisce profondamente. Mi addormento davanti alla TV, mi addormento a stare a sentire i discorsi di persone che non m’interessano. Mi stanco a scrivere lungo, non riesco a progettare una lunga gittata di scrittura: ho bisogno di essere più stimolato, spinto e tirato dalle evenienze. Se cerco un libro da leggere alla fine prendo qualcosa che già conosco. Se cerco un amico ne cerco uno che frequento da tempo.
In ogni caso penso che per far bene le cose bisogna cercare l’animo adolescente che da qualche parte uno può aver salvato, l’idea che si abbia ancora tutto davanti, da spendere, anche da sprecare. Bisogna innamorarsi dei libri, delle ideee, delle persone, delle storie altrui, dei progetti. Bisogna avere fiducia da dare, da spargere, da condividere. E questa fiducia va cercata, coltivata, allevata. Anzi: risvegliata.
Ancora una questione: come mai accade questo? È la natura che prevede un progressivo ritirare i remi in barca o è la vita di quelli come me che tende a spegnere entusiasmi e passioni?

venerdì 8 febbraio 2008

Questione di nomi




In Liguria abbiamo un consigliere regionale che si chiama Tirreno Bianchi. È nato negli anni quaranta, si occupa di porto e commerci. È un comunista. Non voglio parlare di lui, non lo conosco, non so chi sia. Mi incuriosisce il nome: Tirreno. Bestiale! Per un ligure, un rivierasco portuale o marinaro, un nome del genere ha un’onorabilità altissima. Il Tirreno ci si para davanti (pure a noi che non siamo portuali) come un limite e una sfida. Sappiamo che nei secoli attraverso quel mare sono giunti perfidi e ottimi stranieri. Sappiamo che attraverso quel mare abbiamo qualcosa in comune col resto del Mediterraneo, ma lo stesso Mediterraneo sembrerebbe presuntuoso, eccessivo, troppo vago e vasto per designare una persona.
Tirreno ci ricorda il lavoro legato al mare. Se parlate di Sargassi, vengono in mente le anguille; se parlate di mari della Sonda vi verranno in mente avventure da romanzo; mar dei Caraibi i pirati, mar Morto il sale, mar Rosso il turismo o, per i più ortodossi, la Bibbia e i suoi racconti.
A me personalmente Tirreno fa venire in mente un rimorchiatore unto e bisunto, piccino, che spinge sbuffando una pertroliera colossale. Tirreno mi fa pensare alle tavole marce che s’inabissano in porto, ai piccoli pescherecci, quasi cabine del telefono su una barchetta stinta. Mi fa pensare ai silos, alle navi cariche di carbone e ai camalli col sacco “in scabuggio”, sulla testa, a camalare corbe di antracite su passerelle malferme. E penso pure alla Compagnia Unica Pippo Rebagliati, che fino a non molti anni fa (non so oggi com’è) aveva, nella sua sede, la foto di Lenin appesa al muro. Colossali, commoventi, onoratissime teste di cazzo nel senso più alto e positivo del termine. Penso alle tante lotte dei portuali, allo “Stoccafisso e bacilli” da comprare direttamente in porto, da quella tale barchetta (di cui ho sentito raccontare) che fino agli anni ’50 girava per i cantieri navali, per le secche e le calate a vendere stocco e fave. Penso a quando andavo a spiaggia da bambino, con mio fratello, amici e vicini di casa, e l’odore del mare ti rimaneva addosso una settimana (o magari ti sembrava di sentirlo).
Per altri versi gente che conta, gente importante, da prendere come riferimento, esempio e way of life ha chiamato il secondogenito, nato pochi mesi fa, con il nome di Oceano. “Povero bimbo!” è stato il mio primo pensiero. Fortunatamente, di famiglia, ha tanti di quei soldi e potere per cui anziché prenderlo per i fondelli gli altri bambini penseranno solo: “Ma perché io non mi chiamo Oceano?”.
I genitori sono un po’ megalomani, non c’è altra spiegazione. Ho cercato articoli di giornale che dessero tutte le spiegazioni del caso, tipo: “Dall’Oceano viene la sempiterna sfida verso l’uomo” oppure: “Valga, questo nome, a spronarlo verso competizioni e certami vieppiù difficoltosi e arditi”. E invece no, dicono (la famiglia) che questo nome è proprio dedicato a un santo della chiesa cattolica, tale Sant’Oceano, martire in Bitinia (Turchia) a Nicomedia. Altro non si sa. Siccome il frugolo è nato il 4 settembre e quel giorno è sant’Oceano, hanno semplicemente messo il nome del santo del giorno, dimostrando di essere rispettosi delle tradizioni. Solo che Sant’Oceano (a cui, sia innalzata un’ode, nessuno ha mai pensato di dedicare non dico una chiesetta, ma manco un altare –finora e da queste parti…-) viene festeggiato il 18 settembre (secondo il sito www.santiebeati.it che ritengo attendibile) e non il 4, in cui si festeggiano, tra gli altri: Bernardo, Bonifacio, Caleterico, Fredardo, Giuseppe, Marcello, Mosè e Scipione Gerolamo.
Ognuno metta i nomi che vuole, ci mancherebbe. Non sono poi queste le faccende che pesano di più. Mi rattrista sapere che molti bambini da oggi saranno chiamati Oceano perché “il figlio di…” è chiamato così. E mi infastidisce anche la necessità di dare spiegazioni, di tentare di rientrare nel solco della sacra tradizione. Oceano è un nome inusuale, curioso, ma, nel solco delle mode new age, dell’estetica totale, è svuotato di ogni senso. La parola “oceano” viene dal greco e significa “immensità”. Ecco dunque un bimbo abituato fin dalla culla ad essere incommensurabile. E poi oceano non vuol dire niente. Quale oceano? Indiano? Atlantico? Pacifico? Ma già, sbaglio: si tratta di un santo non di un mare.
Tirreno era un nome frutto di una ideologia, una controtendenza marcata che apparteneva ad una classe sociale. Chiamo il figlio Tirreno perché voglio allontanarmi dal giogo di un potere che vigila sull’uomo fin dalla culla, gli consegno un nome importante, dignitoso e austero perché si comporti di conseguenza per tutta la vita. Questo nome sbocciava in anni in cui la libertà non era ancora una parola frusta abusata da tutti.
Oceano è un nome di stile, di concetto, di lucida vernice su forme archetipe, di design e made in italy, infine di uno strano tratto di prevaricazione: posso chiamare un bimbo con certi nomi perché io sono un modello e gli altri mi seguiranno.
Mentre mi documentavo per scrivere queste note ho scoperto che la regale coppia aveva già un figlio. Che nome hanno imposto all’erede? Un nome cristianissimo, un nome da papi: Leone. E nessuno pensi alla superbia del re della foresta. Tutt’al più al noto democristiano partenopeo presidente.

lunedì 4 febbraio 2008

Lotta di classe negli anni '50


Antefatto: ho scritto un articolo che ho pubblicato anche qui sul blog. Siccome non sappiamo quando uscirà AVB mi onoro di ospitare l'intervento del Caro Davide Montino, che ha risposto a quell'articolo da par suo.


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Sul numero di dicembre di Alta Val Bormida Alessandro Marenco ha scritto un bell’articolo sulla presunta fine del mondo operaio. Bene ha fatto ad evocare questo tema, a seguito della morte degli operai torinesi, e purtroppo poco tempo fa abbiamo dovuto constatare quanto siano vicine a noi le cosiddette “morti bianche”, con la triste vicenda dell’operaio Giancarlo. Detto questo, sono meno d’accordo quando Marenco dice che “con l’incidente avvenuto a Torino mi sembra di notare che sia cominciato il funerale del mondo operaio”. Il funerale del mondo operaio comincia il 14 ottobre del 1980, con la marcia dei 40.000 quadri e capi che sfilano per chiedere il ritorno al lavoro della Fiat. Sono gli albori del decennio del denaro facile, dell’edonismo sfrenato, della scoperta di un’Italia che non ha nemmeno più la memoria della fatica della Ricostruzione, della guerra, del fascismo. Karl Marx, nel criticare la dialettica hegeliana, scopriva la mistificazione del pensatore di Jena, per cui è più vera l’idea di un oggetto che l’oggetto stesso. E con questo disvelava, ad un tempo, il motore reale del divenire storico – i modi e i rapporti di produzione – e la funzione dell’ideologia dominate, quella sovrastruttura fatta appunto di idee, valori, religioni, paradigmi scientifici che sono il prodotto della struttura materiale che in qualche modo giustifica e difende. Il mondo operaio non è scomparso. L’Italia è piena di operai, di lavoratori dell’industria più o meno pesante; essi sono una leva dell’economia anche di fronte ai processi di deindustrializzazione attualmente imperanti. Ma soprattutto sono figli di una cultura che è stata un elemento costitutivo della modernità. Ed è su questo piano che dagli anni Ottanta è stata mossa una guerra contro l’idea stessa del lavoro proletario. La classe operaia, che esprimeva una sua identità forte, andava poco a poco allontanata dalla scena dell’immaginario collettivo. Un’identità fatta delle lotte per l’emancipazione dei lavoratori, di biblioteche ed università popolari, di società di mutuo soccorso, di diritti e dignità sul lavoro, protezioni e sicurezza, rispetto della fatica. Un’identità che ha espresso valori differenti rispetto a quelli della società borghese, valori come la solidarietà e la giustizia, che ha dato voce agli oppressi, ai ceti subalterni, che ha provato a definire un modello diverso di società di massa, dove le moltitudini sono composte da individui consapevoli e non da corpi che vanno omologati. Nell’attuale modello culturale non c’è posto per il lavoro, ed in questo dice bene Marenco, ma solo per l’illusione della ricchezza. La società del consumo, del terziario avanzato, non sa riconoscere la fatica, e vive l’impegno e lo sforzo come un degrado. E chi lavora? Forse oggi, tutto sommato, i livelli più alti di alienazione sono proprio tra commessi e segretarie, impiegati e piccoli funzionari. Chi sta in fabbrica resiste, sempre più solo, e deve chiudere nell’armadietto, nello spogliatoio, la tuta blu, perché altrimenti rischia di farsi riconoscere, come raccomandavano certi libri di scuola degli anni Cinquanta.
E veniamo alla Val Bormida. Terra di fabbriche da più di cento anni, siamo in gran parte figli di operai prima ancora che di contadini, ma abbiamo fatto davvero in fretta a dimenticarcene. Tutto il sapere tecnico, l’appartenenza, lo sforzo che ha rappresentano la fabbrica che fine ha fatto? Eppure i nostri padri, in gran parte, hanno passato turni e turni attaccati alle macchine, alle presse e ai torni anche per dare una dignità maggiore ai figli. Ora si buttano giù gli antichi muri dei reparti, si stende una mano di colore agreste, si fa qualche celebrazione in forma di mostra, e ci si butta alla riscoperta del territorio senza avere coscienza che questo territorio è (e fu) fatto di uomini, del loro lavoro, dello sfruttamento capitalistico che proprio qui in Valle dovremmo aver conosciuto con il suo nome, senza mezzi termini. Tra il 14 novembre 1952 e il 2 febbraio 1953 operai occupavano la SICED, in Ferrania, per opporsi alla chiusura della loro ditta e al licenziamento di 230 lavoratori, e lì trascorrevano il Natale, che così ricorda nel suo Diario Mario Giannotti, testimone attento di quei giorni: “Giorno di Natale. Quella paglia che duemila anni fa aveva accolto il fanciulletto di Nazareth, questa notte aveva accolto i lavoratori della SICED. Questa notte ognuno si girava nel suo giaciglio, non prendendo sonno, tutti avevano voglia di raccontare. Ogni tanto vedevamo un compagno che spingeva lontano da sé la coperta o la mantella, faceva ponte con le ginocchia, si abbracciava le gambe e raccontava una sua avventura, mentre tutti gli altri facevano capoccella da sotto le coperte” (Diario di lotta. Testimonianze di lotta durante l’occupazione della SICED, Arti Grafiche, Cairo M.te, 2000, p. 78). Sembra passata un’enormità di tempo, tanto più oggi dove tutto si brucia in un attimo. Eppure, la nostra storia è fatta anche di questo conflitto di classe, che è stato parte – sia in modo consapevole che meno – della vicenda industriale delle nostra Valle. Ricordare la lotta della SICED significa, in questo contesto di oblio del mondo operaio, ricordare il coraggio di opporsi in virtù di una propria identità, ma soprattutto significa porre al centro la questione di un’appartenenza e di un orgoglio che fa stare insieme, uniti di fronte ai processi di sfruttamento e di straniamento attuali. Ricordare quella vicenda vuol dire ripensare a quello che siamo stati, alla storia delle nostre famiglie, ai mezzadri sfruttati dai fattori prima ancora che dai signori, agli operai che al mattino prendevano le corriere o andavo per chilometri in bicicletta, e che combattevano per avere uno spazio per il pranzo, un posto dove scaldare il cibo di casa. Significa, anche, recuperare la memoria di una cultura che è nata nelle fabbriche e che ha costruito anche la storia di questo paese malandato, che ha parlato un linguaggio proprio che oggi si sta perdendo, che ha maturato competenze artigiane pregiate che ora si svendono, che ha saputo immaginare un’utopia per tutti che sapesse di libertà ed equità. Perché è vero che gli uomini non sono tutti uguali. Nascono diversi perché diversa è l’articolazione interna di ogni società. Ma possono cambiare la loro condizione, senza rinnegare chi sono, ma con l’orgoglio di quello che fanno. Così, mi piace chiudere con un’altra citazione dal Diario di Giannotti, che rende appieno quel senso di libertà, responsabilità e fiducia che non è detto si debba per forza perdere: “un’altra giornata di lotta. Si deve lottare perfino contro il freddo e ogni sorta di malanni, come il raffreddore, la tosse, la febbre. Nonostante queste condizioni avverse la nostra bandiera di lotta sventola ancora alta, una lotta condotta con serietà, con volontà e con spirito di sacrificio” (Diario di lotta, cit., p. 95). Era sabato 10 gennaio 1953.

Davide Montino

lunedì 28 gennaio 2008

Campagna elettorale


Stamattina è iniziata per me la campagna elettorale.

Sono uscito di buonora e ho trovato, davanti al tabacchino sotto casa mia, la macchina (una bella bestia) parcheggiata in contromano e per metà nella carreggiata, con due ruote (quelle destre) sulle strisce pedonali, a circa un metro da un incrocio, a due metri da un cartello di divieto di sosta permanente. Ho aspettato per vedere il galantuomo. Solo per cuiosità, sia chiaro.

Ebbene, era un politico locale di cui non farò nome, ma che aspirerà a diventare qualcosa o qualcuno.

Gli ho fatto una croce sopra (figurativamente). Così ho cominciato a votare.


Se non è in grado di mettere la sua grossa e inutile auto in un regolare parcheggio e andarsi a prendere il giornale facendo 3 passi, cosa vuoi mai che amministri uno così?!


E se poi, come ha fatto, riesce a infrangere almeno tre articoli del codice della strada (divieto di sosta, sosta contromano, sosta su strisce pedonali) solo per comprare un giornale, quali cose riterrà legittime, lecite, opportune, possibili?


Occhi aperti amici! Guardate in faccia i vostri candidati, spiateli attentamente e decidete di conseguenza. Questo PRIMA di pensare al programma e al partito.


domenica 20 gennaio 2008

libera chiesa e libero stato

Ero cristiano e cattolico, fervente. Andavo alla messa il sabato sera a suonare l’organo, poi la domenica mattina a messa prima (sempre organo) e infine a suonare la chitarra a messa granda, alle 11,00, insieme a molti amici. Andavo alla “festa del ciao” (che non ho mai capito cos’è) e a veglie e raduni di preghiera, andavo ai campi estivi ACR (che anche qui non sapevo e non so, esattamente, cosa sono). Nessuno mi ci mnadava per forza, sia chiaro. Ci andavo quant’è vero che andavo alla scuola di musica sacra a Mondovì, quant’è vero che ogni tanto mi facevo svegliare alle 6,00 dal rettore del collegio di Mondovì (prima ITIS) per seguire la messa in intimità con altri quattro o cinque amici. Era una messa sentita, celebrata tutti insieme intorno all’altare. Era “mensa” più che messa.
In quegli anni di full-immersion nel cattolicesimo mi sono sempre trovato bene. Si pregava, si parlava di Dio, si corteggiavano le ragazze, ci si confidava. Succedevano insomma tutte le cose (più o meno) che succedono agli adolescenti. Non ho mai sentito parlare di laicità, dei comunisti come dei nemici, della libertà di parola non del papa, ma di chiunque. C’era lo spazio per pregare e lo spazio per cantare, giocare, ridere, litigare e fare cose immorali (ove possibile e nei limiti dell’età).
Il referendum sul divorzio e quello sull’aborto non furono laceranti, travagliati, imbarazzanti. Prima di tutto non ero chiamato al voto, e questo semplificava le cose. Ma poi pensavamo (e io non ero il solo) che ognuno dovesse fare quel che riteneva giusto, perché così ci avevano trasmesso (non insegnato) e quindi va da sé che è meglio non abortire, non divorziare, ma ci sono dei casi, delle situazioni in cui è senz’altro meglio, magari situazioni che mette male pure immaginare. Libero arbitrio, si chiama, anche se non lo sapevo, e pare sia un fondamento della religione cattolica.
Il massimo di critica ai comunisti da parte del nostro parroco e insegnante di religione don Giulio (quanto bene gli ho voluto… Ma mica per un motivo preciso, così, perché vuoi bene ai tuoi) era che nelle fabbriche i comunisti vogliono comandare tutto loro e invece “noi” (diceva lui) diciamo che è giusto che ognuno faccia la sua parte”. Basta, semplice e accettabile, ancorchè scorretto… Ma sostenibile, discutibile, quasi gentile nella descrizione.
Poi non so cosa sia successo in me. Ho trovato le posizioni della chiesa sempre più invadenti, moralistiche, autoreferenti (“è giusto perché è scritto” o “è giusto perché lo dico io che sono il papa”). Giunto che fui all’età della (auspicabile) ragione la religione cattolica ha smesso di darmi risposte. L’aborto, la famiglia, la critica al sistema scientifico, alla ragione e all’illuminismo ribadita di recente, sono tutte cose che mi mettono in imbarazzo per l’evidente scorrettezza delle tesi sostenute dalla chiesa. La famiglia è rara, come la intende il clero, spesso è formata da risposati, conviventi, eterni fidanzati che neanche convivono. Eppure funzionano e hanno figli belli e buoni a cui talvolta non hanno mai insegnato la morale cattolica. La legge sull’aborto evita la morte di migliaia di donne (dove non c’è la morte per aborto illegale è la III causa di decesso nelle donne). La scienza è un metodo, non si può sovraccaricare di significati o dargli abiti che non sono suoi per poterla attaccare meglio. Prova e riprova, verificare e falsificare. L’illuminismo è stato causa di rivoluzioni le quali, come noto, viaggiano su fiumi di sangue. Però senza queste rivoluzioni vivremmo ancora il medioevo. Valutare pregi e difetti è difficile, ma senza “lumi” avremmo ancora il papa-re, e questo non mi piacerebbe per niente. Il gran finale è la quantità di soldi che la Città del Vaticano drena legittimamente dallo stato italiano. La cosa mi rattrista. Scuole private, cliniche private, insegnanti di religione pagati dallo stato e designati dal vescovo, ICI non pagata, televisioni a disposizione.
Quando dicono che il papa non può parlare mi stupisco: domenica mattina era su rai 1, rai 2 , retequattro (una messa, non il papa), sky tg24, sat 2000, contemporaneamente. Neanche Padre Pio riusciva a essere tanto poliubiquo. E non può parlare? Strano.
È la cultura scientifica che non può parlare, la ragione e il raziocinio, lo stimolo all’approfondimento anche in televisione al posto del giochino scemo.
E poi, dal mio modesto pulpito, mi piacerebbe poter dare un consiglio ai signori della nomenklatura episcopale: guardatevi dai giornalisti che vi difendono, sono abili politicanti, vi trascinano, senza che ve ne accorgiate, a discutere di cose elevate nella bassezza del fango di questa politica. Statene alla larga, non fatevi portare, accompagnare, non condividete nulla con loro. Io non mi fiderei di gente che parla di pluralismo e libertà e stampa un giornale pagato dallo stato. Combattete le vostre battaglie con i mezzi che avete (che sono sicuramente sufficienti) ma non demandate il megafono ai secolari, a questi strani atei fedelissimi, laici pii, conservatori orbi e tradizionalisti che si ritagliano una religione su misura per loro.
Ah! Ancora una cosa: il papa alla Sapienza, naturalmente le due cose tra loro non hanno relazione. Ma non è questo il fatto, è che se n’è costruita una cosa abnorme, che ha visto alleati giornalisti e clero. Il papa (o il suo ufficio stampa) lavorano con malizia e questo non è bello.
È bello vedere (per me) dei giovani che contestano il potere, politico, religioso, militare o giudiziario che sia, perché il mestiere dei giovani è quello di contestare, per poter ricostruire.