giovedì 27 dicembre 2007

Il funerale del mondo operaio

A Torino sono morti bruciati alcuni operai. Altri sono gravi all’ospedale. Ora quella fabbrica è chiusa e ferma in attesa delle indagini.
Prima sorpresa: ci sono ancora gli operai. Si, perché ci eravamo quasi convinti che l’economia girasse solo più grazie al terziario, al terziario avanzato, al turismo, al commercio, alla produzione ecologica e sostenibile di prodotti del territorio, di consulenze, di corsi e di convegni. E invece no, c’è ancora l’industria, è pesante, è dura e puzzolente, la gente ci lavora, ogni tanto si fa male, più raramente (comunque troppo) ci muore.
Marco Paolini era stato in televisione qualche tempo fa con uno spettacolo indimenticabile: la cronaca della tragedia del Vajont. Tra le altre bellissime cose che questo artista aveva detto dal palco, c’è stata anche un’affermazione riguardante la descrizione del disastro di Longarone, Erto e Casso come una sorta di funerale del mondo contadino e montanaro, che non serviva più a nessuno, che stava diventando anacronistico rispetto alla grande espansione industriale dell’Italia degli anni sessanta. Aveva ragione Paolini, lo abbiamo visto anche noi in Valle Bormida: negli anni sessanta assistitemmo alla fine di un declino cominiciato decenni prima. Quarant’anni fa scomparivano gli ultimi contadini propriamente detti, gli ultimi che ragionavano da contadini, che mangiavano da contadini, che morivano da contadini. Le cascine si sono svuotate piano piano e talvolta sono lentamente crollate. Era inevitabile che le cose andassero così: il tempo passa e la società cambia. Non si può pensare di obbligare un certo numero di persone a nutrirsi sono di polenta, castagne e latte; di scaldarsi solo con una stufa, di lavarsi in un catino. Eppure siamo/sono stati affrettati a fare quel funerale a cui faceva riferimento Paolini, tant’è vero che oggi si “riscoprono” sapori, usanze, consuetudini. Si sente parlare della bella vita di campagna (evidentemente da chi non l’ha conosciuta…) e si ricercano prodotti “tipici”, coltivati o allevati con metodi “naturali”, “all’antica”, “secondo l’usanza dei nostri vecchi”. Mi pare che ci si sia troppo affrettati a seppellire chi non era ancora morto, e ora ci ritorni lo spettro di tutto quello che abbiamo perduto sotto forma di ritualità e immagini che ci piacciono, ma che sono totalmente vuote di valore e di peso morale e culturale. In realtà, quello che abbiamo seppellito, non è tanto il mondo contadino ma il bagaglio di competenze, il sapere e il modo di affrontare la vita che poteva tornare utile: la solidarietà tra vicini e l’ospitalità con gli stranieri; il non sprecare la roba anche in abbondanza; il non dipendere da altri; il decoro e dignità cercati al di là degli oggetti che si possiedono; il saper raccontare, recitare e cantare per il piacere di farlo; il saper costruire gli utensili che ci servono; il non contrarre debito a meno che non sia indispensabile. Ma quante cose ancora ci vengono in mente a pensarci bene? Tutta quella esperienza empirica (che poteva e doveva essere aggiornata e migliorata) è stata sepolta e dimenticata. Al suo posto abbiamo lo splendore, la bellezza come valore quasi assoluto, la necessità di apparire, l’incapacità a risolvere i propri problemi manifestata come un pregio, la dipendenza dagli altri, dalle istituzioni, dalle finanziarie per ogni piccola cosa; la salute perfetta ed integrale; l’introspezione fino all’egoismo; la diffidenza o la paura degli altri. Non è sempre e tutto così, diciamo che questa è la direzione sulla quale ci siamo incamminati.
Con l’incidente avvenuto a Torino mi sembra di notare che sia cominciato il funerale del mondo operaio. È una mia impressione da inesperto, da incompetente. Sembra che non ci sia più dignità nel lavoro, che non si possa essere fieri del proprio lavoro, anche se da metalmeccanico, da chimico o da manifatturiero. Il precariato, le politiche economiche complesse di alcune multinazionali, che preferiscono lasciare alla deriva gli impianti piuttosto che chiuderli, i modelli sfavillanti dei media, così lontani da quello che realmente è il mercato del lavoro, hanno finito per sfiduciare molti operai, per togliere loro il gusto di lavorare bene, di lottare per i loro diritti, per partecipare alla vita comune.
Il problema è che, come per il caso del mondo contadino, si finisca per seppellire quello che la cultura operaia industriale è stata capace di formare negli anni, mutuandola in parte dal mondo contadino e in parte creandola ex novo: dico il rispetto per chi lavora sotto forma di soldi o di agevolazioni maggiori, il rispetto del riposo dell’operaio turnista («Silenzio! C’è il papà di xxxx che ha fatto la notte!» mi dicevano da bambino se facevo troppo chiasso nel condominio), la retorica, ebbene si, perfino la retorica che si trovava in alcuni libri di scuola elementare, che ritraeva il lavoratore quasi come un eroe, un esempio da imitare; le idee nuove, come lo scoprire che la differenza tra gli uomini spesso è legata allo stato patrimoniale, più che al colore della pelle o all’accento della parlata. In conclusione vorrei dire che se a noi, in Valle Bormida, ci cancellano il patrimonio culturale contadino e il patrimonio culturale operaio, forse, ma forse, non ci resta proprio più niente, se non i vuoti cerimoniali quasi sacri alla (finta) memoria del contadino o dell’operaio.
(Courtesy AVB dec. 2007)

domenica 16 dicembre 2007

Perchè non credo al laminatoio


Qualche mese fa la provincia (o altro ente locale) ha stanziato un milione di euro per il tratto di strada che congiunge il “Ponte della Volta” con lo stabilimento. Spesa: 1 milione di euro.
Qualche mese fa gli in prenditori hanno detto che sono disposti a spendere 350-400 milioni di euro nel laminatoio, di creare 300 posti di lavoro diretto e altrettanto d’indotto. Sono disposti SE lo Stato onora gli impegni presi e (tra l’altro) fornisce la strada di collegamento tra PdV e stabilimento.

Facendo la debita proporzione è come se un cuoco dicesse: il sono pronto a far da mangiare per un banchetto da 200 persone, ma fin che non arrivano gli stuzzicadenti io non parto.

È così: finchè non saranno finiti svincoli, ponti e gallerie, finchè non ci saranno le varie “piattaforme” operative non sapremo che fine farà lo stabilimento.

Aspetto ora i quotidiani locali, vediamo cosa riescono a dire, a farci capire…

venerdì 7 dicembre 2007

Io non ci volevo... II parte.

Foto: ho visto la luce!!!

Comunque arriviamo al punto: la questione è che la “missione”, ovunque si faccia, prevede allegata in omaggio la “buona novella”. Se uno va in Africa (ma anche se resta qui) insieme a quello che fa per “loro” è ovvio e scontato che debba diffondere la “buona novella”. Nessuno parla di conversione, nessuno parla di primato del cristianesimo romano cattolico, ma si capisce benissimo.
Alcune professoresse intervengono per parlare di massimi sistemi: si conoscono tra loro e fanno una specie di gara per stabilire chi la sa più lunga. Uno degli interventi propone un dilemma: noi (loro) siamo il tramite tra la verità e gli ignoranti. Siamo degne di questo compito? Nessuno ha azzardato una risposta.
Nessun altro vuole intervenitre? Parla allora Filippo Neri. I giovani non vengono a messa perché sono i genitori a non accompagnarli. In ogni caso chi si avvicina e sente il messaggio, anche se poi nell’adolescenza se ne allontana, prima o poi ritorna. Poi cita una mail anonima arrivata a lui, lo avvisano che a Millesimo c’è un sexy shop, dice l’anonimo che bisogna fare qualcosa per chiudelo. Filippo risponde che addirittura l’hanno invitato ad andare a benedirlo!! (indignazione tra le signore composte). Io mi chiedo perché no? Oppure l’ XI dice: “non userai falli di plastica” ? Mah! O magari si, ma solo a fini riproduttivi.
Comunque Filippo dice che se la gente non ci andasse lui chiuderebbe, il lavoro da fare (ne consegue) è sulla evangelizzazione del popolo e non sulla chiusura di esercizi commerciali (anche perché, con lo stesso principio, si dovrebbero chiudere rosticcerie, gelaterie, negozi di armi, ma, a pensarci bene, anche frutta e verdura…).
Breve giro di presentazione dei vari gruppi di volontariato, risolini d’imbarazzo. Alcune raccolgono tappi di plastica. Altri le lattine. C’è un gruppo che appena cominciato e si occupa dei bambini di strada in Brasile: hanno un pieghevole bellissimo. Raccolgono soldi e li mandano all’associazione clericale di Mondovì. Quando viene il turno della nostra associazione la segretaria del gruppo con il quale collaboro saltuariamente sciorina quieta tutti gli interventi, le iniziative, i progetti: scuole, adozioni a distanza, viaggi in Africa per contatti sul posto. Tutti allibiti: altri che tappi di plastica! Guardo gli altri del direttivo dietro di me che sorridono tutti sornioni e soddisfatti…
C’è qualcosa questa sera che mi pizzica dentro, ci penso meglio e noto le signore professoresse filo-di-perle, maglioncino, occhiale, figlie a loro volta di professoresse o maestre o mugnai o capiturno in fabbrica. Loro possiedono le parole e i concetti da esprimere. Invece quella signora lì, quella vicino, basta vedere come tiene il foglio che le hanno dato: è un foglio con sopra delle parole pure difficili da capire e l’hanno dato in mano a lei. E lei ne è orgogliosa. Tiene il foglio tra le dita, senza piegarlo, lo guarda con l’occhio presbite (mannaggia, gli occhiali a casa) e le mani raccontano di lavori donneschi, di campagna, di orto. Raccontano di tagliatelle e, forse, di ravioli. Raccontano forse anche di colli di galline spezzati, di spiumaggio, bollitura, condimenti. Alla fine si guarda un po’ di tivì e si va a letto a dire un rosario, a mandare un bacio alla Madonna, che vegli su questo e su quest’altro. E penso che la professoressa sarà sempre in prima fila a parlare e spiegare le cose, e quest’altra, quella che tiene il foglio come sacro, sarà chiamata per fare pulizie, per portare, per accompagnare, per scaricare: non sa parlare, che lavori allora. E a me veniva in mente una lettera di don Lorenzo Milani, nella quale si dice: “I signori ai poveri possono dare una cosa sola: la lingua, cioè il mezzo d’espressione. Lo sanno da sé i poveri cosa dovranno dire quando sapranno scrivere” (e parlare, dico io). E penso anche a Pasolini, ma senza cercare citazioni: solo l’immagine di quella faccia corrosa.
E invece la storia è sempre la stessa: c’è un foglio scritto, viene da un gesuita francese. “Leggetelo voi” dice il prete. E lo legge una professoressa. Ad ogni capoverso il prete ferma e ci spiega cosa c’è scritto. Ma è mai possibile? Se è scritto in una lingua comprensibile non ho bisogno di mediatori, se è incomprensibile l’errore è del teologo non ecumenico. Come si capiscono i protestanti, da questa posizione!
In ogni caso serpeggia la convinzione che la morale cattolica è la morale tout-court, che se non sei cattolico sei amorale e quindi non puoi fare nulla di buono.

giovedì 6 dicembre 2007

Io non ci volevo venire... (I parte)

Sono arrivato che la riunione era già cominciata. La sala quadrata e ampia era stipata di signore sedute contro il muro. Ad una estremità una cattedra, dietro la quale due signori avanti con gli anni osservavano il ritardatario con malcelato disprezzo. Venivo fornito di foglietto scritto fitto, un documento, una stampa in grande serie, professionale, dal titolo: “Per una pastorale della pro-creazione”.

L’aria è caldissima, gravida di aromi di minestrone e di cagliata, di settimana enigmistica e candela appena spenta. Le signore tutte intorno si suddividono in due gruppi principali: il primo (e più cospicuo) chiameremo delle ex professoresse, il secondo (più rado e dimesso) delle casalinghe di paese. Tutte comunque vertono sulla sessantina. C’è pure una suora: la si riconosce perché, per motivi incomprensibili, tutte queste vestono dimesso, largo, grigio, con calze spesse e scarpe scure di stoffa, e più ancora perché si fanno scarmigliare i capelli in malomodo, dopo averli fatti tagliare a un qualche sconsiderato incapace. Questa in particolare è magrissima, nervosa, iperattiva. Ha mani lunghissime da pianista mancata. Eppure fini, dalla delicata pelle diafana.

Evidentemente i due dietro la cattedra sono sacerdoti. Uno grigio, aria triste e capelli lunghi e unti. Sguardo ascetico di chi ha visto cose che non può nominare. L’altro sornione, sorridente. Ordinato, degno, ancorato solidamente a terra, diresti vedendolo. Uno è sant’Ignazio, l’altro è san Filippo Neri.

La serata era stata proposta come un’occasione per fare incontrare le associazioni di volontariato della Valle Bormida.

Si comincia con la lettura (“Chi vuole leggere? Chi se la sente?”) di questo “ciclostile” inviato da non si sa chi, stampato da non si sa chi, scritto, a quanto pare, da un gesuita teologo, un luminare. Il documento parla delle crisi del cristianesimo, del fatto che questa può diventare un’occasione per ricostruirla, per riconfigurarla, come la mappatura di una centralina elettronica? come un computer? Per conto mio noto subito una certa povertà di linguaggio, una bassezza di metafore, una piattezza di argomentazioni che denotano, da parte di un teologo gesuita, la convinzione profonda di avere sempre e comunque a che fare con degli stolti. Evangelizzare in una società secolarizzata, ecco un altro tema forte. Ma dove vorrà arrivare? Penso io. Bestiale: cita questa parabola? Metafora? Non saprei: Nel 99 in Francia si abbattè l’uragano Lothar, 300 milioni di alberi furono abbattuti. Gli ingegneri forestali prepararono un piano di rimboschimento ma scoprirono che il bosco aveva già ricominciato a generarsi naturalmente, manifestando una “migliore biodiversità” (… le parole sono importanti ndr).

“Anche la Chiesa” continua il documento, “ha conosciuto da 40 un uragano. Il paesaggio religioso è devastato…”. Quarant’anni fa cos’è successo nella chiesa? Dunque: 2007 – 40 = 1967. Direi il Concilio Vaticano II, quello che ha introdotto la messa in italiano, che ha cercato di aprire la strada al dialogo tra religiosi e quello che ha fatto nascere nella chiesa l’esigenza di adeguare la dottrina ai tempi. Quello un uragano? Mah! Io credevo che fossero passi avanti…

Comunque la lettura (da parte di una ex professoressa impettita, occhiale raffinato, collanina d’oro sopra il maglioncino morbido) viene spesso interrotta di Ignazio di Loyola che chiosa, esplica, chiarifica. Alla lettura si alternano le professoresse. Le cattoliche si riconoscono perché quando sono in presenza di un prete non accavallano mai le gambe, neanche se hanno i pantaloni. Ginocchia unite, mani conserte. Ferme. Magari a casa, a scuola, nella vita di tutti i giorni no. Ecco a che punti il condizionamento.

La lettura prosegue con la “Piccola grammatica per una pastorale della pro-creazione” (a me i giochi di parole puzzano di bruciaticcio lontano un miglio…).

Ignazio di Loyola continua a porre questioni massime: come mai ci sono sempre meno fedeli, come mai i giovani preferiscono andare al bar, bere, incontrare amici e ragazze di facili costumi, ridere e parlare dei loro problemi piuttosto che venire qui a sentire questo odore, questa aria viziata e parlare della fede e delle questioni pastorali in cui il nuovo millennio propone davanti all’uomo come creatura di Dio nel contesto di una religione vissuta come atto d’amore quotidiano, un darsi che è un prendersi, un prendersi che è un darsi e così via… Lo stesso Ignazio segnala come sia buono che i giovani abbiano fatto rinascere ad esempio la tradizione del cantare le uova, ecco, dice, quando si attraversano momenti difficili in cui rischiamo di perdere le nostre origini, riscoprire le proprie tradizioni è senz’altro un’ottima cosa. E a me viene in mente Guzzanti, il suo finto “spot” in cui diceva, più o meno: non sai chi sei? Non sai da dove vieni? Allora, dai! Mettiti dei buffi costumi e rispolvera le antiche stupide tradizioni! Quando si balla il saltapicchio? Dove si balla il manfrinotto?

venerdì 23 novembre 2007

situazione attuale


L’ultima novità è il laminatoio a freddo. Prima avevamo parlato di: segnali stradali, pellicole per vetrine, carta inkjet resistente alla luce e all’ossigeno, cianine biomediche, centrale a carbone da 800 MW, una decina di centrali a biomasse da 20 Mw, un ciclotrone (SIC!!!), un sistema ad aquiloni per la produzione di energia eolica, una piattaforma tecnologica (cosa volesse dire, poi…), un outlet (SIC!!!!!!), produzione “wafer” per fotovoltaico, produzione inchiostri e dispersioni per inkjet, superconduttori, macchine per risonanza magnetica, incubatore d’impresa, deposito o retroporto containers.

Da quando è iniziata la questione siamo passati dal migliaio di persone a circa 250. L’azienda dice di perdere circa un milione di euro al mese (di meno, più recentemente).

Da cinque anni ci dicono che “oramai… il negativo tradizionale, basato sull’argento… non è che… Capisci…”. E intanto si producono 5 milioni di metri quadrati di negativo. La differenza è che non rende più come prima, la differenza è che lo confezionano altrove. Sennò fino a qualche anno fa il negativo era sui 6-7 milioni di metri quadrati (ma c’erano in fabbrica 1500-2000 persone).

Si produceva anche radiografico e arti grafiche. Adesso dismesse.

In sintesi aspettiamo che siano finiti gallerie e svincoli (opere pubbliche) che renderanno il sito di maggior valore.

Cosa succederà? A breve succederà che il 26 novembre il C.d.A. deciderà se liquidare l’azienda o ricapitalizzare.
Ma… E i contratti di programma? Tutti i progetti che sono stati buttati sul tappeto?
Semplice: non sono arrivati i finanziamenti.
Purtroppo questi onesti in-prenditori non sono appoggiati da una numerosa e variegata classe politica che non sa che fare. Un grazie anche ai giornalisti che non ci spiegano le cose (recentemente hanno scritto che un laminatoio è un impianto che comprende un altoforno con grande impatto ambientale…), e un grazie agli ecologisti che dicono di no, un grazie ai sindacalisti, perché non sarà solo colpa dei dipendenti se le cose andranno male.
Grazie di cuore all’INPS che mi paga la CIG.
Vedete com’è? Non siamo poi in mezzo ad una strada! Non possiamo neppure lamentarci davvero delle condizioni in cui ci troviamo, non siamo gli ultimi: un giovane precario che comincia oggi a lavorare è messo molto peggio.
Però a 40 è un po’ dura.

giovedì 15 novembre 2007


Mercoledì 19 dicembre a Cengio presenteranno questo libro.



Intervengono Franco Icardi, Davide Montino e MARIO CAVATORE.



E finalmente un autore di libri vero che presenta un libro vero...



Ecco perchè telefonavo a Einaudi!!

Intervenite numerosi!!

sabato 3 novembre 2007

mala tempora...


Ecco, lo sapevo… è successo.
Un uomo ha aggredito una donna, forse l’ha violentata, seviziata L’uomo è un rumeno, i telegiornali dicono “rom”, io credevo che i rom fossero zingari, invece pare che rom sia sinonimo di rumeno. Tutti i rom sono rumeni, tutti i rom sono zingari, i rumeni sono zingari.
Che pena e che tristezza per quella donna, per suo marito e i suoi amici… E che pena per quella gente che vive nelle baracche, di furti, piccole rapine, pasticci vari. E che pena ancor più per i bambini che nascono tra quelle baracche, per la loro visione distorta del mondo, quasi quanto la nostra. E poi provo pena anche per lui, il mostro, quello che i giornalisti e politici aspettavano e auspicavano da tempo. Eccolo, c’hanno anche la fotografia: egli è il Male, il Maligno. Che pena, povero coglione, testa di cxxxx che non sei altro, finirai in galera, è scritto. E forse è giusto. Forse verrai picchiato e seviziato a tua volta, perché chi ha commesso altri reati si sente meglio a sapere che c’è qualcuno peggio.
È vero, hanno ragione, queste cose non succedono in un paese civile, almeno non per strada, al buio (i giornalisti si sono dannati l’anima –coi politici- per dire che quella strada era buia, che non hanno messo neanche un lampione): in genere sono cose che avvengono in casa, nelle case, sotto il legale tetto coniugale. In genere sono i signori mariti che seviziano le mogli, ma se lo fanno ci sarà il suo bel motivo. Magari esagerano, però sono stati provocati…
Allora, perché è successo?
Primo motivo: ci sono in giro delle persone di vario sesso, etnia, provenienza, che hanno una scala di valori dell’esistenza diversa da quella comunemente nota e condivisa. Alcuni sono meglio, altri peggio. In genere quelli peggio sono nati e cresciuti in ambienti in cui non hanno imparato a rapportarsi con gli altri se non con la violenza, non conoscono altro linguaggio che la sopraffazione, la forza fisica, la prevaricazione. In genere sono stati prevaricati, picchiati e affamati fin da piccoli. Ci sono queste persone perché il mondo è ingiusto, incompleto, scorretto. È evidente: da un lato si muore per i grassi nel sangue, dall’altro si muore senza sangue…
Fin da bambini impariamo a pulire. Pulire vuol dire togliere lo sporco da una superficie, un abito, un vetro, un auto. Dove va a finire lo sporco? Non ci riguarda, va via, giù dal tubo, per strada, in un fosso, in un tombino, nel cestino della spazzatura. In verità lo sporco non sparisce: cambia sede, cambia forma. Diceva Lavoisier: tutto si trasforma, nulla si distrugge. Noi ci siamo abituati che se una cosa è lontana da noi allora non esiste più. Le baracche, gli uomini sporchi, ubriachi, le puttane, i bambini malati, gli analfabeti, sono l’immondizia di questa società perfetta, adatta alla “performances”, strafiga e palestrata, coi bei denti bianchi e qualcosa da rispondere ad ogni domanda. Allora l’immondizia va gettata via. La si elimini, la si eluda, la si cancelli. Ecco, una volta buttato fuori e lontano tutti gli indesiderabili, ripristinato il bel giardino dove i mulini sono bianchi, dove il campanile rintocca, i bimbi giocano, le mamme cucinano e i babbi lavorano, tutto è a posto: non ci riguarda più.
Secondo motivo: non è la mancanza di lampioni a causare l’assalto a una donna sola, è il fatto che è sola, tant’è vero che spesso la donna viene assalita in casa propria, dal proprio marito, quando è sola con lui e tutte le luci sono accese. Fino a poco tempo fa in quella stazione ci sarebbe stato un capostazione e un manovratore. Dal treno sarebbe sceso il conduttore. Almeno 3 persone solo nella stazione. Poi fuori forse un netturbino, un poliziotto, un carabiniere, qualcuno che lì ci lavora. Adesso, complice l’ottimizzazione di tutto il porco mondo occidentale e redditizio, non c’è più nessuno da nessuna parte. E se hai bisogno telefona al 118, al 115 o dove ti pare. E che ognuno si faccia i fatti suoi, per piacere.
Terzo motivo: non si possono tollerare le baraccopoli. Non qui dove siamo “occidente cristiano”. Non tollerare baraccopoli non vuol dire abbaterle con i loro abitanti dentro, vuol dire che dovrebbe essere nell’istinto di tutti, ma proprio di tutti, l’esistenza di cose che non si possono sopportare, e allora si trova una sistemazione da “cristiani” come dicevano una volta. E si fa rispettare il codice penale e se non va bene si cambia. Ma devono funzionare anche gli assistenti sociali, i centri di accoglienza (e non di detenzione a priori), la gente stessa che abita vicino a quelle baracche e che aiuta quella gente perché è uso così: si aiuta chi ha bisogno. E non è vero che sia una spesa enorme, inutile, che non si possono aiutare tutti… Non bisogna lasciare che nessuno, a destra e a sinistra, faccia politica sulla pelle di altri.
Quarto motivo: il mondo non è corretto, non è giusto, non è integralmente bello. Esistono condizioni sub-umane, forse sono la maggioranza. Quando un caso ci porta questa condizione in primo piano gridiamo all’indignazione. Prima no, non ci riguarda. Eppure esistono quelli che picchiano, seviziano, vendono armi, sfruttano il lavoro altrui, la pelle altrui.

Infine: in questi giorni un gruppo di mascherati ha linciato un gruppo di rumeni. Il risultato (oltre alla solita, frusta, indignazione di chi ha soffiato sulla medesima brace) è che ora ci sono tre o quattro rumeni ingiustamente perseguitati che avranno un buon motivo per non aiutare, o picchiare addirittura, un’altra persona. Le ronde, le vendette, le spedizioni punitive peggiorano il mondo. Io non voglio vivere in un mondo in cui ci si fronteggia, in cui “ognuno a casa sua” (possibilmente chiuso a chiave dietro una porta blindata). Il razzismo è alle porte. Non ce ne renderemo conto finchè non arriverà qualcuno a insegnarci una nuova morale, allora e solo allora potremo dire che noi l’avevamo detto, che non c’entravamo nulla, che noi, al massimo, eseguivamo degli ordini…

Ecco, questa foto, infine, l’ho scattata in un campo di nomadi in provincia di Savona. Lui, il vecchio patriarca, si chiama Camillo. Chiedete in giro chi conosce Camillo, provate ad andarlo a trovare: vi fa un caffè, se lo accettate volentieri (e se ha tempo). Un po’ si lamenta perché gli fregano la roba… Ma lui dice che bisogna avere pazienza.

Ancora una cosa: non parlo apposta dei politici famosi, quelli della “maggioranza” da Veltroni a Fini.

venerdì 2 novembre 2007




Ho telefonato... Ho preso il telefono e ho fatto squillare un apparecchio in un ufficio di via Biancamano a Torino...


Gente, se c'è qualcosa di sacro, se quel qualcosa è rimasto, è in via Biancamano. No, non ditemelo che il padrone è quell'altro, non ditemi che tanto l'etichetta non conta più niente, lo so da me.




Ma pensare che quel suono da me provocato ha attraversato l'aria che ha conosciuto Pier Paolo, Primo, Carlo Emilio, Beppe, Cesare... Quanti altri?




E' un affare che uno ci mancano fino le parole.


Almeno per me, e lasciatemi sognare!




PS Non ho telefonato per il motivo a cui state pensando: non ho niente (io personalmente) a che spartire ne ora, ne in futuro, con questi signori (magari!), è una questione assai bella, che se va in porto poi ve la spiego per bene.




mercoledì 17 ottobre 2007

Economia e aggiornamenti

Mi dicono che il tipo di manifattura industriale che rende in Italia (12%) sia solo più la produzione di energia. Le altre, pare, meglio farle all'estero.
Mi dicono che nei servizi, terziario, come lo vuoi chiamare, l'impresa che ha fatto una escalation maggiore è quella del lotto e scommesse LEGALI: le corse tris, il superenalotto ecc...

Mi rendo conto che gran parte della nostra economia gira perchè ci sono i nostri genitori in pensione, che hanno comprato una casa, che ce la lasciano in eredità.

Mi rendo conto che il lavoro si trova solo più a tempo determinato, interinale, duro, insicuro e mal pagato. Mi rendo conto che i cinque anni di perito industiale li posso definitivamente buttare nel gabinetto. Mi rendo conto che la roba, tutta la mercanzia vale pochissimo, che non si ripara più niente, che tutto è fatto solo per essere consumato e cambiato.

Mi rendo conto che io, a 40 anni, aspetto solo più la pensione o la legge sull'amianto, o la mobilità, o la CIGS, o che il diavolo si porti. Mi rendo conto che in giro c'è pieno di cravattari legalizzati, che fanno pubblicità per tutti i versi, che nessuno ferma o regolamenta sul serio.

Mi rendo conto che siamo pieni di auomobili, che ci sono tanti incidenti perchè ce ne sono troppe. Eppure non c'è un TG un giornale un politico che dica: ci sono troppe macchine, è ora di smettere.

Mi rendo conto che nella mia val Bormida gli imprenditori aspettano i soldi dallo stato, lo stato aspetta che gli imprenditori s'inventino qualcosa, i lavoratori aspettano e basta.

Mi rendo conto che c'è pieno di gente che ha un sacco di progetti entusiasmanti, col sottotitolo: "Se ci date i soldi...".
Mi rendo conto che l'Italia sta diventando sempre più razzista. Che dicono degli albanesi e dei rumeni le stesse cose che si dicevano qualche anno fa dei marocchini, e prima dei calabresi, dei siciliani o dei sardi.

Mi rendo conto che la classe politica è sempre più lontana: formata da giornalisti, avvocati, politici di professione. Mi dispiace.

Il PD è bellissimo, elegante, interessante: un bel prodotto.

Mi rendo conto che riesco a fidarmi delle singole persone. Partiti o movimenti mi mettono in ansia.

Sono un po' stanco...

venerdì 12 ottobre 2007

Temi altrui...


Sppure in ritardo trascrivo un tema caro ad un caro amico...


Vediamo....

PS la foto non c'entra niente...

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Ma che mondo è quello in cui uno dice:

“le tasse sono un modo bellissimo di contribuire al finanziamento di ospedali, scuole, forze dell’ordine, etc….”

frase che esplicita il concetto di convivenza sociale a fondamento di una democrazia, ed i titoli dei telegiornali sono stati:

“TPS: le tasse sono bellissime!!”

Non credo (non voglio credere) alla mala fede dei giornalisti, ma penso che il problema sia la profonda ignoranza che ormai caratterizza gran parte di questa categoria, vitale per il futuro democratico del nostro paese, ma il cui declino rappresenta un pericolo che non deve essere sottovalutato. Penso che i giornalisti siano molto più pericolosi dei politici, tanto vituperati e che hanno ovviamente le loro gravissime colpe, perché la percezione del reale e della realtà di un popolo passa in gran parte attraverso di loro. Così la politica diventa gossip e l’informazione si preoccupa di raccontarci le battute ed i pettegolezzi che la caratterizzano.

Provate un esperimento: scegliete un resoconto politico a caso da un qualsiasi telegiornale nazionale e provate a verificarla, cercando di risalire alla fonte, alla dichiarazione originale o nnon so che e vedrete la differenza che c’è.


Pampi

sabato 6 ottobre 2007

Chi l'ha visto?


Quest’uomo è nato a Vellezzo Bellini (PV) nel 1863, si chiamava Luigi Sacchi, era un girovago istruito, insegnava a leggere e scrivere ad adulti e bambini nell’entroterra di Savona, tra i boschi di Montenotte, Dego, Cairo, Quiliano e Osiglia. Era conosciuto anche con il nome di Maestro Sacchi o Maestro Milano.

Chi legge questo messaggio è pregato di chiedere in casa ai suoi nonni/genitori, se ricordano qualcosa del “Maestro Milano”.

Segnalatemi tutto qui sul blog, oppure inviate una emali a marencoa@libero.it

Poi vi spiego

lunedì 1 ottobre 2007

Territori...


Come in televisione: se ne parla sempre, si discute, si ragiona, si studia, se ne fa l'esegesi. E' come il sesso, se ne discute di continuo. E non si fa mai... O quasi.

Così è il "territorio".

Del territorio ne parlano tutti: politici, giornalisti, amministratori, insegnanti, storici, commercianti.


E invece sul territorio bisogna andarci di persona, magari a piedi. Passo per passo, quante piccole e piacevoli cose ci sono da vedere.


Una domanda: da Plodio si vede il mare?

R. SI, eccome, ecco la foto presa dallo spiazzo di fronte alla chiesa di Sant'anna. Secondo un amico è la chiesetta che hanno costruito i pastori piemontesi che si sono stabiliti a Plodio ("Podium") nel 1600.


Si, ma io non sapevo neanche che esiste questo bel posto, perchè non compare nelle guide turistiche?

Un consiglio: comprare un paio di scarponcini comodi e passeggiare per i sentieri della nostra bella valle.

Altro che "parlare del territorio", il territorio si fa, si vive, si trasforma...

sabato 29 settembre 2007

Un bel libro e uno che (per me) lo è un po' meno...


Prima di tutto rendiamo omaggio alla gentilissima Loryssima.

Ti dò retta, cerco di stare ancora un po' dietro al blog, hai ragione tu. Proviamo.


Poi:

Il libro da leggere è "Il seminatore" di Mario Cavatore (Einaudi). Me l'ha consigliato Bertu di lillu, quello della chitarra. Com'è noto i Trelilu fanno i folli ma solo sul palcoscenico...

Cavatore è un esordiente di 'anta anni. Ha scritto un piccolo capolavoro. Un intreccio curioso, appassionante, mozzafiato. Il protagonista è uno zingaro residente in Svizzera, prima della II Guerra. Mentre lui fa il servizio di leva una organizzazione (sedicente) filantropica ("per i bambini di strada") gli sottrae (con la forza della legge) i due figli e gli uccide la moglie. La vendetta di Lubo sarà perfidamente splendida: cercherà di mettere al mondo 200 bambini con donne svizzere. E già in questo si capovolge un archetipo: il nazista ne uccide 10 per ognuo, Lubo ne genererà 100 per ognuno. Già solo da questo si avverte la distanza tra i due universi.

Ma questa storia non si esaurisce solo con la prolifica vendetta. Negli anni i bambini crescono e la pelle non diafana, l'occhio sottile, una certa aria asiatica fa in modo che rimangano osservati speciali nelle stesse famiglie di appartenenza. L'intreccio è stuzzicante, la prosa sciolta, l'argomento -per me- inedito.

A fine testo le note: non si tratta di una storia completamente inventata... Anzi! è esistita in Svizzera, come in molti altri stati "civili", una organizzazione per la tutela dei bambini di strada, in pratica un metodo per eliminare il vagabondaggio, basato sulla sottrazione di quel che i zingari avevano di più caro: i figli. Di qui all'eugenetica il passo è breve e dall'eugenetica alla definizione di razza, al "bisogno" di far pulizia di chi non è perfetto, chi non è sano, "adeguato", il passo è tragicamente breve. Pensavo fossero idee prevalenti di nazismo e fascismo, e invece anche gli USA, anche l'Inghilterra (dove l'eugenetica è nata), anche in Svezia si è andati alla nefasta ricerca della perfezione fisica e mentale della gioventù.


L'altro libro che ho letto non mi è piaciuto. Per rispetto all'autrice (che quando ero ancora un trilobita, conoscevo) non lo citerò. Dico solo l'editore: S&K.

Una fanciulla ama ma non è riamata come vorrebbe. I genitori sono più bambini di lei. Conosce una, più vecchia, diventano amiche, poi litgano, poi fanno pace. L'amica fa un bambino. Lei l'aiuta.

Credo che al di là del fatto che è scritto con grande maestria, precisione, correttezza, sia una storia che non mi riguarda, per questo non mi piace. Sospetto fortemente che si tratti di una operazione commerciale per vendere, sull'onda di Moccia. Sono più che convinto che l'Autrice, se può e se ne ha voglia, potrà donarci delle storie di quelle che non ti fanno dormire dall'emozione, quelle che ti fanno arrivare tardi ad un appuntamento...

lunedì 30 luglio 2007


È stata una bella festa, un paio di giornate che da un po’ non vivevo così semplicemente, felicemente.
A Cengio hanno fatto una festa di piazza, come usa d’estate, con un tema nuovo e interessante: la solidarietà. Hanno invitato tutti i gruppi valbormidesi e c’erano anche gli amici di “Luca è con noi”.

Si è mangiato squisitamente, si è ascoltato buona musica (per una volta non il solito liscio…) e si sono potuti stringere legami nuovi tra le associazioni e rinforzare quelli vecchi.

Grazie alla Tribù Garolla: sono bellissimi e bravissimi, sono aumentati negli anni, qualcuno ci ha lasciato da poco, non ce lo dimentichiamo, anche se forse era la più silenziosa e sobria. Quelli che restano le fanno grande onore. E poi grazie anche a Stelvio. È instancabile, disponibile, corre e non si ferma mai, dà retta a tutti, fa e parla (relativamente) poco.

Ci saranno anche altre persone che si meritano un GRAZIE. Io non le conosco. Bisogna che qualcuno glielo dica: conservatevi, siete un bene prezioso per tutti.

sabato 7 luglio 2007

TFR

Io pensavo: “Se mettono su tutta ‘sta faccenda si vede che è proprio meglio darsi da fare per trovare vie diverse d’investimento, si vede che non si può più garantire niente sulla liquidazione, si vede che non è più al sicuro”. E invece no. Si poteva scegliere (fino a qualche giorno fa) dove mettere ‘sti 4 soldi: lasciare in azienda, in fondo contrattato con sindacati etc., in fondo di assicurazione privata.

Mi sono chiesto solo una cosa: come mai c’è la pubblicità della seconda e terza scelta e (quasi) nessuno consiglia la prima? Buffo, no? Se ci sono 3 scelte perché solo due sono consigliate vivamente da ariticoli, pagine, interviste, servizi tv, e la prima no? Si vede che la prima, ho pensato, è terribilmente svantaggiosa, tanto da non esser presa neppure in considerazione. Eppure…

Se lascio i soldi in azienda questi sono garantiti dall’INPS. Posso cambiare idea quando voglio. Se vengo licenziato o mi licenzio dopo un po’ di tempo me li danno. In tutti gli altri casi NO!!

Non solo: io verso una certa quota in azienda. Se l’azienda deve decidere di lasciare a casa personale è meglio che cominci da quelli che hanno versato la quota “fuori”, su fondi diversi che non devono essere ridati al lavoratore.

Quali garanzie ho circa i miei soldi investiti in un fondo “studiato” apposta dagli assicuratori, dalle banche, dalle finanziarie? Non lo so.

Tutte queste cose simpatiche da sapere sono nel libro qui rappresentato: “La pensione tradita” di Beppe Scienza (si chiama Beppe ma non è un beppe qualunque: ha titolo per parlare, lo si cerchi su un motore di ricerca…). Ma la cosa che più mi imbarazza, tutte le volte che scopro queste cose, è vedere come e quanto i giornalisti non facciano sufficientemente il loro mestiere. Mi pare di aver appreso più cose da un breve articolo di Enrico Oliveri sul mensile L’Alta Val Bormida che da Stampa o Secolo o peggio ancora in TV…

In ogni caso io ho trovato una soluzione ancor migliore di queste tre e perfettamente legale, anzi, a dire il vero me l’hanno trovata i commissari fallimentari della ditta nella quale lavoro: hanno portato tutto dal giudice Giorgi che ha fatto per bene tutti conti, secondo legge, e mi (ci) ha liquidato con un bell’assegno. Risolto il problema del TFR dei miei primi anni di lavoro. Diversamente ero sicuro di non vederlo.

martedì 3 luglio 2007

un libro, un film


Ho quasi finito un libro di cui vorrei parlare, ho visto un film, ieri sera, che si potrebbe, in qualche modo, mettere in relazione col libro. Il volume è pubblicato da Einaudi, 2007, l’autore è Vincenzo Rabito, il titolo è “Terra matta”. Il film, di cui non ricordo né l’anno, né il regista, si chiama: “Vento di terra”. Nei due titoli, faccio notare, c’è la parola “terra”.

Il libro
Un bel giorno, Vincenzo Rabito, uomo siciliano, semplice cavatore con la 5° elementare, si chiude nella sua camera e comincia a battere a macchina la storia della sua vita. Non ricordo quante pagine riesce a tritare nel suo italiano stento e pieno di imperfezioni ortografiche e di dialetto. Ha attraversato il secolo superando guerre, epidemie, totalitarismi, fatiche fisiche estreme, ed è lì a mettere in fila lettere, separate assurdamente, ognuna da un punto e virgola. E scrive proprio come un contadino ara la terra: senza sprecare il foglio/campo, attento a non lasciare incolto troppo margine. Non so più quanti anni ci ha messo, Vincenzo, a scrivere tutto. Mi par di vederlo, con gli occhiali sulla punta del naso, un tasto alla volta. Poi prender confidenza e diventar più rapido. In qualche modo pure divertendosi, con il piacere fisico della Olivetti Lettera 35. Tlak-tlak. In casa saranno impazziti. Un qualche nipote, alla fine, prende il malloppo e spedisce a Pieve Santo Stefano, presso l’archivio diaristico nazionale. Rabito vince il primo premio dell’annuale concorso. Lo vince postumo perché nel frattempo è spirato. Einaudi lo scopre e lo pubblica. Se non è un successo poco ci manca…
Il racconto è avvincente. Si fatica a seguire il filo, si fatica a capire, talvolta ho dovuto rileggere. Eppure ci si diverte a seguire la narrazione. Alcuni dei nostri nonni non sapevano scrivere, ma quasi tutti sapevano raccontare: erano cresciuti col racconto, con la favola, con le veglie la sera.

Il film
Del film so pochissimo. La trama: Secondigliano (NA) anni ’90. Il giovane e la sua famiglia (padre madre sorella) sopravvivono dignitosamente nel degrado noto della periferia napoletana. Si succedono (come se non bastasse) varie disgrazie. Per resistere, per sopravvivere, il giovane può scegliere se diventare un delinquente o partire volontario a fare il soldato. Deve comprare casa, accetta perciò di andare in missione in Kossovo. Finalmente madre e sorella sistemate, ottiene il trasferimento a Napoli e conosce un fanciulla. In tempo per ammalarsi di quel che è seguito all’uranio impoverito. Fine.
Il film è crudo, senza commenti, senza concessioni sentimentali di sorta. Si prova vero malessere, nausea, tristezza. Si ha la percezione dell’ingiustizia continua, come un basso lontano, ininterrotta.

Le due opere in qualche modo si parlano: la storia dei non potenti si ripete nel tempo, a distanza di 80-90 anni. Allora, Vincenzo senza lavoro, accetta qualsiasi mestiere per aiutare in casa. Oggi, il giovane di Secondigliano, fa la stessa cosa. Altri come Vincenzo, nel 1915, morivano per cause diverse legate alla guerra, ma anche all’ottusità di ufficiali, crudeltà di generali, tiri sbagliati della “nostra” aritiglieria. Oggi un giovane di Secondigliano muore a causa dell’uranio impoverito. E lo Stato nega. Ha negato…
Più di 80 anni son passati. Quanto sono cambiate le cose?

domenica 1 luglio 2007

Campanula Sabatia


Bella vero? Fiorisce ai primi di giugno.


Ciau

Radio Canalicum


Sono stato invitato a parlare alla radio. Si tratta di Radio Canalicum, la piccola e dignitosissima radio che trasmette da Cairo Montenotte. Quando ero fanciullo ascoltavo di sovente Radio Cairo, nonna della attuale. Era il tempo delle radio private, fatte con molta passione e poca professione. Però era bello: tutti conoscevano tutti ed era possibile telefonare per dediche, ascoltare i messaggi degli innamorati, seguire la cronaca locale. Non so quale trasformazione è avvenuta ma molte di queste radio (e anche televisioni) si sono perse. Si tratta di una pagina ancora tutta da studiare.

In ogni caso ho parlato, intervistato da una vecchia conoscenza salicetese, Diego Dormetta. Me lo ricordavo come calciatore: il passo lesto e l’affondo preciso. Mi pare giocasse ala destra. Io ero inetto già allora allo sport, più di tutto nel calcio, e restavo a bordo campo ad annoiarmi.
Oggi il dottor Dormetta mi ha intervistato alla radio. Mentre lo scrivo mi scappa da ridere… C’è da specificare che sono stato interpellato non in quanto me medesimo, ma perché momentaneo portavoce dell’associazione “Luca è con noi” di Plodio. Bene, per chi vuol sentire il sottoscritto (e soprattutto sentire cos’è e come funziona l’Associazione) deve sintonizzarsi con Radio Canalicum sui 101,1 o 89 MHz. Martedì 10 luglio alle 15,00. Giovedì 12 alle 21,30. Sabato 14 alle 10,10.

Diego si sta occupando del volontariato in Valle Bormida. Dice che è abbastanza diffuso e radicato. Dice che è “l’oro della Val Bormida”. Io non saprei, ma sicuramente l’attività di volontariato è davvero diffusa e differenziata. Mi sembra che abbia preso il posto dei movimenti politici. Mi ricordo quando frequentavo la sede del P.C.I. di Cengio, negli anni ’80. Tanta gente che aveva voglia di partecipare, di fare, se non altro durante la festa dell’Unità. In fondo era questo: la voglia di fare qualcosa insieme, per una buona causa.
La rivoluzione è stata rimandata a data da destinarsi. Resta da fare molto: piccole cose, piccoli passi, piccoli mattoni che vorrebbero costruire grandi case. Se non azzerare le grandi ingiustizie dal mondo, almeno alleviare la sofferenza di qualcuno, pochi per volta, e dare una speranza a chi non l’aveva.

venerdì 29 giugno 2007

Ignoranti come due bestie




Sulla rivista Alta Val Bormida ho una piccola rubrica, si chiama “Visto in valle”, il gentilissimo direttore mi ha lasciato piena libertà, basta che si parli di Valle Bormida. Tra i vari argomenti che ho trattato mi sono anche dilungato a spiegare quanto, negli anni ’60 e ’70, la Valle Bormida avesse una serie di imprese brave a costruire, a realizzare cose difficili, come impianti chimici, centrali termoelettriche, raffinerie o pariticolari di carpenteria pesante. Non mi sono addentrato in particolari, ma un esempio valga su tutti: se l’estrusore che ancora oggi a Ferrania (sia pure con tutte le difficoltà note) continua a stendere i suo otto sottilissimi strati di emulsione fotosensibile sulla pellicola, la quale viene immediatamente asciugata e solidificata a umidità e temperatura controllati in un essicatoio lungo più di mezzo kilometro, ebbene, se ancora oggi c’è tutto questo è perché si tratta di una tecnologia difficilissima e raffinata da installare. Non è impossibile, solo che non è più remunerativo installarne di nuove. Questo a Ferrania funziona e quindi produce. Ma la cosa che qui ci interessa è che quell’estrusore è stato disegnato, realizzato, assemblato e messo in funzione da gente di qui (al massimo da Savona, per dire), non con competenze dall’altro mondo. Ancora oggi per rettificarlo ci si appoggia al buon lavoro manuale di una persona specializzata in quest’opera.
La conclusione sarebbe che ci siamo lasciati scappare un’occasione importante: quella esperienza, quella capacità, andava coltivata e sostenuta. Coltivata da scuole adatte e sostenuta da istituti di credito adeguati.
Comunque, nel pezzo facevo cenno alla saldatura a TIG, dicendo che chi non lo sa è tenuto ad informarsi, perché viviamo in un mondo PIENO di saldature, a TIG o meno che siano.
Diversi amici mi hanno fermato per strada per chiedermi che cos’è la saldatura a TIG. Dico brevemente che questo tipo di saldatura (Tungsten Inert Gas) consiste in un arco elettrico fra il pezzo e l’elettrodo non fusibile (in tungsteno) immerso in un flusso continuo di argon, un gas inerte. Questo gas “copre” la saldatura fusa e impedisce all’ossigeno atmosferico di aggredire il metallo incandescente e debole.
La questione però è un’altra: perché siamo (chi più chi meno) disposti a spendere soldi e tempo per sapere con che formazione giocherà l’Atalanta, se gli infradito saranno ancora di moda, se la Gregorazzi ha baciato o meno Pippomozzetti e non ce ne importa un tubo delle cose che ci stanno intorno? Se leggo un articolo, se ascolto un telegiornale e questi mi destano una curiosità, uno stimolo, una sorpresa, mi viene voglia di capire un cicinino di più di quel che Rossella o la Palombelli mi dicono. Non dovrebbe essere difficile. Capisco che un po’ lo è nelle questioni complicate di politica o finanza internazionale, ma perché non applicarsi a conoscere il nome delle piante intorno a casa mia, il nome e la predisposizione delle nuvole, la reazione “semplice” che scioglie il sale nell’acqua? Come è possibile non sentirsi in colpa a causa della propria ingnoranza, qui e oggi?!

PS: la foto non c’entra. E’ un omaggio ad una gentile amica…

giovedì 21 giugno 2007

Sono stato impegnato...

Ho avuto piccoli problemi di tempo, per cui non ho più scritto un tubo...

Chissà se c'è ancora qualcuno là?

Appena posso riscrivo. Prometto prodezze, fantasticherie, donne nude, ricchi premi e cotillon (come diceva Arbore).

A presto

Io

lunedì 16 aprile 2007

infortunati, martiri ed eroi

Il Presidente del Consiglio ha chiamato "martiri" i caduti sul lavoro. Il Presidente della Repubblica è da tempo che invoca un’attenzione particolare per gli infortuni sul lavoro. i giornalisti che vanno a fare un reportage in Afghanistan o in Iraq rischiano la vita, talvolta la perdono, come Baldoni. I carabinieri o i soldati della "forza di pace" pure. Però i giornalisti, se vengono liberati o meno, generano un "dibattito politico" molto aspro, molto acceso, a causa di riscatti pagati, contatti più o meno leciti con terroristi. I carabinieri che muoiono a causa di un attacco suicida (Nassirya) sono eroi e per loro molti vorrebbero la medagia d’oro al VM.
Secondo me c’è un po’ di confusione.
Tutte queste categorie di persone citate esplicitamente ed implicitamente (dico ad es. anche i muratori) sono LAVORATORI. Ovvero: fanno una certa operazione dietro pagamento di un compenso. Talvolta da fame, talvolta profumato. Uno che casca da un ponteggio, che rimane sotto una balla di cellulosa da 2 tonn. (a Genova, pochi gg. fa) sono sempre vittime di un infortunio sul lavoro. Allo stesso modo, secondo me, sono vittime di infortunio anche i giornalisti rapiti e i soldati feriti o uccisi, durante missioni operative (lasciamo stare se di guerra o di pace…). Solo che i muratori sono pagati male, fanno un lavoro ingrato, sono considerati quasi zero. Un giornalista vittima di sequestro (andato là volontariamente e pagato bene) avrà la cassa di risonanza di tutti i suoi colleghi per auspicarne la liberazione. Questo provoca pressione sull’opinione pubblica e quindi sul governo. Un carabiniere è volontario e pagato abbastanza bene. Se rimane vittima di un attentato ha (giustamente) diritto a cure, onori e qualcuno che si prenda cura della famiglia (ma non medaglie, le quali si danno per atti eroici spontanei). Come mai queste differenze? Perchè non è "EROICO" uno scaricatore al porto, un muratore, un adetto ad un impianto chimico che si intossica e muore malamente in vent’anni? Perchè sono disponibili a spendere soldi, parole, monumenti, carte, filmati, fiction in TV, libri, nomi di piazze e di vie, serate speciali da Vespa o Costanzo per soldati e giornalisti e non ad occuparsi allo stesso modo dei morti di Porto Marghera (pertrolchimico), dell’ACNA di Cengio, delle cave, dei cantieri…
Sono lavoratori, tutti quanti. Meritano tutti rispetto. Tanto un carabiniere che per farsi una bella casa accetta di andare a Nassirya, quanto un operaio stroncato dal PVC in polvere o cos’altro (per comprare la cucina nuova..). Perchè per l’inviato di Repubblica si fanno tante parole, tante immagini, tanti discorsi e per quell’uomo (di cui non so neppure il nome) morto in porto a Genova metre scaricava la celluloide non si sa nulla?!
Usiamo le parole giuste: non ci sono nè martiri nè eroi, ci sono persone che lavorano, sanno lavorare, lo fanno (spesso) meglio che possono per portare a casa la micca (e il companatico) e talvota restano vittime. Nè martiri nè eroi!
Triste è quella società che ha bisogno di eroi.

giovedì 12 aprile 2007

Aiutiamoli, ma attenzione




Sono stato ad una nuova riunione del gruppo "Luca è con noi", l’associazione neonata che si occupa di infanzia, soprattutto in Africa, di adozioni a distanza, di un sacco di belle cose. Dino, uno dei fondatori, ha rivolto a sè e agli amici presenti, una domanda: "Perchè in Africa c’è la fame? Perchè proprio lì e non altrove? Perchè, mi chiedono altri, ormai da anni li aiutiamo e loro sono sempre alla fame?".
Sono domande lecite, e credo che il primo compito di chi decide di fare della solidarietà internazionale sia quello di rispondere, ovvero di documentarsi.. In attesa di approfondire e articolare meglio la risposta vi propongo quello che sono riuscito a trovare in breve e che non vuole soddisfare la questione, anzi, vorrebbe generare altre domande più specifiche.
Dal 1500 circa il mondo "civile" e "occidentale" ha cominciato a sfruttare il grande continente africano. Primi i portoghesi e poi al seguito tutti gli altri. Soprattutto dal punto di vista degli schiavi. Forti dell’interpretazione della bibbia (bisogna dirlo) per cui i neri erano inferiori, quindi merce, quindi esportati a larghe mani in tutta l’America. Tutto sommato però, in Africa, le cose non sono cambiate massicciamente, anche con uno scempio del genere, a cura dei cristiani e dei musulmani. Le cose cambiano con gli stati nazionali, con le colonie, con la progressiva "fame" di materie prime, fonti energetiche e soprattutto mercati nuovi. Parlando sempre in termini generali e lasciando fuori i casi particolari, l’inizio della fine per l’Africa è l’esportazione di modelli di vita "occidentali" in zone abituate con ritmi, economie, agricolture, assai più semplici e antiche. Esportando modelli di economia di mercato in territori dove la forma della società non era adatta, non era formata per questo, dove c’era una forte povertà diffusa, ma che non si accompagnava ad una miseria reale, si è raggiunto il disastro progressivo. Iniziarono, col tempo, i favoritismi per questo o quel governo fantoccio, le forniture di armi pagate a caro prezzo per inventarsi guerre che fino a qualche anno prima erano solo scaramucce a pietrate, trasformandole in spirali di efferatezze. Dove passa la guerra si forma il terreno adatto per l’odio, le malattie, i profughi che si spostano improvvisamente in massa, generando altra fame, altre malattie, altre guerre, minando economie agricole debolissime, ma fino ad allora sufficienti. A questo punto il "mondo civile" fa il suo capolavoro: gli aiuti internazionali. Ovvero, ad esempio, tot tonnellate di grano (ma potrebbe essere altro) gratuito in quella tale zona. In pratica in quella zona il prezzo del grano diventa prossimo allo zero e i contadini del posto vanno a gambe all’aria. Le multinazionali convincono le masse ad adattarsi ai loro prodotti: "migliori", "esotici" ma soprattutto realizzati fuori dall’Africa, per cui si continua a svantaggiare la produzione autoctona. Non c’è industria e i prezzi dei prodotti africani li fanno i compratori: cioè dei "cartelli" di degnissimi imprenditori, di quelli che vengono additati dalle nostre televisioni come meritevoli di massimo rispetto. E il prezzo che fanno è basso, molto basso. Il cacao in Costa d’Avorio lo hanno sempre pagato 10 (per dire un numero) e ora (da qualche anno) hanno deciso unilateralmente di pagarlo 6. Senza contare che sono state le stesse multinazionali a "spingere" per fare monoculture intensive, distruggendo o rendendo inefficace la vecchia agricoltura.
Ecco, grossomodo i motivi sono questi, mal detti e arruffati, ma è così. L’altra sera ho ascoltato ancora tante parole, ma mi sorgeva, da qualche parte, nella testa, il dubbio che si stia per sbagliare qualcosa. Non dico di no: bisogna aiutarli, fare delle adozioni a distanza è buono e giusto. Però è così facile fare dei danni in queste cose che bisognerebbe stare più attenti. Alcuni volontari esperti dicevano tra l’altro che i bambini non sono abituati a stare nei banchi, che è difficile convincerli a stare fermi. Altri narravano di un serpente ucciso vicino all’erigenda scuola. Altri hanno mostrato fotografie di bambini adottati, col loro vestitino, col pacchetto in mano e l’aria veramente preoccupata. Io mi dicevo: ma sarà il caso? Ma siamo sicuri? E se i bambini africani non imparassero a stare nei banchi sarebbe un male davvero? Ma non sarebbe meglio non ammazzare serpenti nè altre bestie selvatiche, quando si va in questi paesi? Ma sarà il caso di fotografarli vestiti come piace a noi, col "nostro" regalo in mano? Non è che noi abbiamo il dovere di dare a loro senza desiderare nè di essere riconosciuti, nè di avere una foto con cui poterci vantare del bene fatto?
Un altro volontario ha detto: "E’ una goccia nel mare, ma è fatto con tanta buona volontà". E a me è venuta in mente una frase di Primo Levi che dice più o meno: "Agli uomini di buona volontà è promesso il regno dei cieli, ma guai a fidarsi degli uomini armati SOLO della buona volontà. Il nostro mondo si fa sempre più complicato e l’analisi dei rischi, palesi e occulti, dovrebbe far parte del bagaglio culturale di tutte le persone" (in "L’altrui mestiere"). Il rischio di far danno è grande quanto la necessità di intervenire. Prima si studia e poi si opera.

martedì 10 aprile 2007

Recensisco "300"


Vale la pena riferire la trama? Per chi non lo sapesse Leonida è il boss di Sparta, la quale è una città-stato alla maniera dei vecchi ellenici. A Sparta sono tutti molto spartani, salvo che nell’estetica, la quale è molto curata… Ma questo è un altro discorso.
Si presenta un bel giorno un emissario di Serse, re dei re. Vorrebbe discutere la resa di Sparta ma si distrae e manca di rispetto. Morale: il re in persona lo catapulta giù da un pozzo. Leonida sa che non può, lui e la piccola Sparta, battere l’armata enorme di Serse, allora congegna di aspettarlo alle Termopili che sono (pare) una gola strettissima attraverso cui s’arriva in Grecia. Un piccolo esercito può valere quanto un grande esercito. Ma non si può muovere battaglia poiché gli Efuri (come dei Giulianoferrara, ma più socievoli) che traggono auspici e si sollazzano con le giovani fanciulle, dicono che non è il momento. Leonida raduna i 300 (giovani e forti, tipo Sapri) e parte lancia in resta verso le Termopili, non prima di aver dato motivo a un deforme fuori misura di desiderare la fine di Sparta e di progettarne relativo tradimento (dimostrando che il pregiudizio spartano sui nati deformi era pure corretto...).
Per via si uniscono agli ateniesi, brava gente ma poco irsuti. In ogni caso vanno al loro destino. Dopo un tot di sputizzamenti e sanguinamenti e decapitazioni e amputazioni varie Leonida incontra di persona Serse, gigantesco re-dio di Persia, ma l’incontro non ha buon seguito. Il deforme li tradisce rivelando un passaggio segreto. Non si sa come i greci vengono a sapere del tradimento, gli spartani restano fedeli alla consegna, gli ateniesi, col benestare degli spartani, stanno ai primi danni e si ritirano. Intanto a Sparta c’è chi maneggia per trattare nientemeno che la pace e nel frattempo si trastulla con la moglie di Leonida. Ma questa donna, forte e volitiva, uccide il marrano, svelando il tradimento (aveva preso denari da Serse per trattare la pace). Intanto alle Termopili Leonida manda un suo soldato a casa coi saluti da parte sua, che ha un impegno, che per un po’ non torna. Accoglie quindi Serse e i suoi orrendi soldati-mostri sorridendo e viene infine trafitto da un tot di frecce, raggiungendo l’aldilà da eroe, come s’era proposto. Lieto fine, quindi.
La critica: una bestialità pazzesca. Questo accade a trasferire di linguaggio una narrazione che dovrebbe al più essere orale riportata dai vecchi intorno al fuoco, in narrazione cinematografica, con incredibili effetti speciali. Gli spartani sono belli, alti, atletici, muscolosi e aitanti come certi modelli pieni di steroidi. Tutti col loro costumino very short: una bellezza! La moglie di Leonida è una bellezza puro lei. Ben pettinata e truccata come si deve. A ogni inquadratura cambiava orecchini. Gli ateniesi sono passabili (esteticamente) e si distinguono dai troiani solo per via del mascara che questi ultimi portano. I persiani sono tutti brutti, stupidi e cattivi. Si presentano a duello contro uno spartano, durante la battaglia, a braccia larghe, immobili, aspettando la spadonata e poi crollano al suolo miseramente.
Comunque per tutto il film gli spartani parlano della loro “nazione” (concetto che non esisteva, allora), del fatto di essere “uomini liberi” (che avevano un re), della patria, del dovere e dell’onore. Sembrava di essere ad un raduno degli amici di J. V. Borghese… Sparta, aiutata marginalmente da Atene, difendendo la Grecia difende tutto il mondo civile dall’attacco degli incivili persiani. Se uno mette USA al posto di Sparta, Europa al posto di Atene e Iraq al posto di Persia il gioco è fatto… (non per niente si tratta di una produz. americana) e in più il “traditore” è colui che tratta la pace…
Dispiace che molti giovani percepiscano così che la guerra è bella, eroica, giusta, sana, divertente, senza danni collaterali… Io per me, un film così lo vieterei ai minori.
Ah! Un’ultima cosa: ‘e basta con le scene d’addio in mezzo al campo di grano quasi maturo!! Ma se esce il contadino vedi come li fa filare quei tronfi pieni di steroidi!!

martedì 3 aprile 2007

Tutto per vivere o tutto per morire



In un film famoso: "Le ali della libertà" tratto da un racconto di S. King, il protagonista, incarcerato con due ergastoli da scontare ingiustamente, dice ad un suo sodale: "Alla fine o fai di tutto per vivere, o fai di tutto per morire". La frase è epica, altisonante, addirittura catartica. Bello, belin, a pensarci bene, mette i brividi addosso. Pensandoci ancora meglio non è proprio così. Anzi, forse non lo è per niente.
Se si potesse vedere, costruire la curva gaussiana che rappresenta l’orientamento della popolazione sulla voglia di vivere o di morire, con, a sinistra, per convenzione, la morte e a destra la vita, si potrebbe forse capire che, come tutte le gaussiane, avrebbe la sua bella forma a gobba, a collinetta. Si, perchè la gente, le persone, mettendole tutte assieme e studiandole, nei discorsi che fanno, in quello che dicono, raccontano, lamentano, sono tutte daccordo che la vita è dura, che è faticosa, tutte fanno mostra, in qualche modo, di tacere vecchie ferite mai spente. Tutti, o quasi tutti, hanno avuto il loro momento in cui, non dico proprio abbiano pensato al suicidio, ma siano stati più "vicini" alla morte che alla vita. Insomma: i "piedi" destro e sinistro della curva sono riservati agli asceti, agli stolti, ai pazzi, ai distratti, ai rivoluzionari, ai credenti profondi. Tutto il resto della popolazione, secondo me, vive in quella condizione di sopportazione della realtà che trova modo (appunto) di sopportare quando è troppo pesante, che spesso non sa godersi quando è soddisfacente.
Non abbiamo mai impiegato tempo e risorse per impararlo e non sappiamo insegnarlo ai nostri amici, questo concetto. Bisognerebbe coltivare di più la capacità di godere dei momenti di pace e di serenità interiore (o esteriore) che ci vengono forniti dall’esistenza. Per farlo, io credo, non è indispensabile essere maghi o asceti. Si potrebbe cominiciare dal memorizzare bene uno stato d’animo, un gusto che uno può sentire in bocca, nel naso, dietro il plesso solare. Capita di rado e non è mai un gusto perfetto, senza sbavature o imperfezioni. Però capita.
Ecco, vorrei dire che questo è il bene. Ed è un bene che uno deve perseguire nella sua vita: soffermarsi a vedere un quadro, una statua, un palazzo, una bella persona, un libro, un meccanismo, una costruzione, un fenomeno fisico o chimico. Cercare il bene in ognuna di queste cose, distillarlo, concentrarlo e metterlo in memoria.
Tutto questo perchè siamo tutti consapevoli del fatto che nella vita ci saranno giorni duri. Non ne sappiamo il motivo, sappiamo che saranno momenti di pianto, di disperazione, di "stridore di denti" come diceva con bella metafora la bibbia. Se siamo armati di bene, se il bene è dentro di noi, nella nostra memoria, non si può dire che non sentiremo male, ma ne sentiremo sicuramente di meno. In quei momenti avremo la consapevolezza che non tutta la vita è così, che non tutta l’esistenza si trascina, vana, tra doveri e regole, routine e consuetudini, talvolta false.
Non perdiamo tempo, allora: troviamo quel che c’è di buono intorno a noi, in tutti i campi. Proprio perchè adesso abbiamo tempo e modo per accumularlo, adesso che la nostra vita non è disperata o esaltante, come la maggior parte delle vite al mondo.
Altro che "di tutto per vivere o di tutto per morire" come dice, appunto, Tim Robbins.

sabato 31 marzo 2007

la famiglia

Avrei voluto affrontare questioni minime, su questo blog, ma mi sento invece di parlare di questioni assai più importanti, come il matrimonio e la visione che ne hanno i politici e i religiosi cattolici.
Si dice, si ripete, si scrive ovunque: la famiglia è la cellula fondante della società. Sarà vero? Io non ne sono poi così sicuro. Una società è disgregata, annullata, distrutta, quando non c’è più da mangiare, da bere, da curarsi. Una società non c’è più quando una madre deve abbandonare un figlio per andare a cercare da mangiare. Una società non c’è più quando una persona viene reclusa, torturata, uccisa senza processo, senza motivo, solo a seguito di un’illazione. In uno stato nel quale le persone fossero libere di muoversi e di esprimersi, non rischiassero la morte per inedia, malattia o solitudine, sarebbe una “non-società”? Non credo. Allora: valore fondante della società è la garanzia di condizioni di vita minima dignitosa per tutti. Credo ci siano pochi stati sulla terra che possono vantarsi di corrispondere a questa (personalissima) visione, volendo anche escludere i casi di certi stati centrafricani di oggi o sudamericani di qualche anno fa ai quali pensavo cogli esempi precedenti.
La famiglia, per come viene sottintesa, dovrebbe essere composta da un maschio adulto, una femmina adulta e un numero variabile di figli da uno fino a oltre la decina. Tradizionalmente, si dice, l’uomo lavora fuori casa (procura il cibo), la donna trasforma il cibo procurato, amministra la casa e alleva i figli. Visone schematica, certo. Oggi non è più così. Entrambi i coniugi lavorano, anche l’uomo è in grado di cucinare, far funzionare la lavatrice, allevare i figli, allattarli addirittura. E la donna ha dimostrato nei fatti che può fare (e fa) qualsiasi lavoro che fino a ieri era eminentemente maschile.
La famiglia parrebbe funzionale ad una società agricola: l’uomo coltiva, la moglie trasforma. Con l’era industiale e l’economia di mercato le persone non sono più centri di produzione ma di consumo. Il lavoro che fa lui può essere fatto anche da lei e viceversa. I bambini devono essere affidati ai nonni o a strutture apposite o a baby-sitter. Il matrimonio aveva, un tempo, grande valore commerciale: era importante la dote, il patrimonio, le disponibilità delle famiglie. Potevano tranquillamente non amarsi i due giovani, si sarebbero conosciuti e amati in seguito, l’affetto sarebbe venuto col tempo. Oggi ci si sposa solo se profondamente innamorati (o apparentemente), si fa una scelta di amore e di fedeltà che deve durare tutta la vita. I figli rappresentavano una ricchezza: avere braccia da lavoro che potevano essere mandate a servizio, che potevano aiutare in casa era una gran cosa. Avere femmine era (ed è, nei paesi prevalentemente agricoli in via di sviluppo) una sciagura. Per capire ancor meglio le differenze tra il matrimonio di un tempo e quello di oggi, o meglio le differenze della società, dirò che il reato di violenza carnale era sì punito, ma solo quando si “danneggiava” una vergine. Se questa ambiva a farsi sposare dal violento tutto rientrava. Se no, il violento doveva pagare ed al massimo era bandito dal paese. Un altro dato interessante lo ha fornito (involontariamente) uno studio genetico su una serie di famiglie nella Francia meridionale. Esaminando e incrociando le analisi del sangue di diverse famiglie i ricercatori hanno scoperto che il 20% dei figli nati in famiglia hanno un padre diverso da quello che dovrebbe essere legittimamente (anche qui, purtroppo, non ho pezze d’appoggio).
Un antropologo, infine, qualche giorno fa alla radio, spiegava di quanto la “forma” del matrimonio fosse cambiata nel tempo e nei luoghi. Da quello più “rigoroso” dei coltivatori a quello più “allargato” dei pastori: l’uomo per seguire il gregge sta via mesi e la donna, in paese, ha un marito sostituitivo, che l’aiuta e la veglia, per cui anche il titolare ne è contento (non so più in che paese e in che tempo questo avveniva, ma non mi stupisce). Pure i grandi viaggiatori sono responsabili del rimescolamento genetico che abbiamo al mondo.
Insomma: nella parola matrimonio, famiglia, risedono i significati più disparati. Chi pensa che il matrimonio sia quello rappresentato nei sussidiari, con la moglie intenta a badare alla casa, babbo in poltrona, tornato allora dall’onesto lavor e i figlioletti che giocano (no, in questo caso ‘giuocano’), come sempre generalizzando, si sbaglia. Aggiungiamo ancora che di tanti matrimoni celebrati moltissimi (non saprei in percentuale) non arrivano all’anno. Tanti anche negli anni seguenti e, supponiamo, molti continuano tra mille difficoltà.
Al di là dei DICO e delle polemiche seguenti, direi che politici e religiosi, visto che sono coloro i quali per motivi imperscrutabili ci tengono di più, si diano da fare per capire bene qual è la vera forma della famiglia oggi, se è la famiglia la cellula fondamentale, se forse non sarebbe tempo di occuparsi di precariato, di scuola, di asili, di televisione, di inquinamento, di diritti all’informazione. L’ho già detto in altro post: il problema della famiglia è cosa seria, va bene. Ma se la famiglia in questione è quella di un danaroso capo d’industria o di banca, non è la stessa cosa che una famiglia di un cassintegrato di Vibo Valentia, vi pare?

giovedì 29 marzo 2007



"Perchè non possiamo essere cristiani e meno che mai cattolici" di PG Odifreddi, Longanesi, 2007.
(Sono a buon punto: non l’ho ancora finito)
Ho trovato questo libro particolarmente interessante. Si tratta di una disamina scientifica, storica, filologica dei testi della religione cristiana in genere, delle affermazioni dei diversi sedicenti titolari, del vaglio logico delle affermazioni contenute nelle espressioni diverse dichiarate e contenute nella bibbia, nei vari scritti dei dottori della chiesa, nelle encicliche, nelle bolle papali.
Tutti questi argomenti, posti sotto la lente della logica, scricchiolano e, molto di sovente, si disfano. E’ quindi un ottimo esercizio per le persone che vogliono mettere alla prova il loro senso critico, la loro fede (se ce l’hanno), la loro capacità di sopportare delle novità inattese…
Non voglio tessere le lodi del matematico impertinente: altri lo faranno meglio di me. Io qui dico che il libro, nel suo insieme, un po’ mi ha deluso: Odifreddi è un ottimo "giornalista", nel senso di divulgatore scintifico-matematico. Rende benissimo quando scrive "corto", entro le poche pagine: fulmineo, coerente, economico, piacevolmente ironico. Quando è chiamato a scrivere testi monografici documentatissimi come questo diventa un pochino (un pochino, neh! Bada bene!) pedante, accademico. Non che per confutare certe tesi non si possa essere meno che scientifici, però vedrei bene (per le prossime opere del genere) una collaborazione con un giornalista o uno scrittore di consumate capacità narrative (come dire, un Eco, piuttosto che un Camilleri, tanto per dire…).
Naturalmente ho torto: le classifiche di vendita dimostrano il contrario.

La delusione cocente arriva dai cattolici: non ho letto o sentito nessuno che abbia criticato il libro di Odifreddi con l’intelligenza che merita. Tanto gli amici cattolici, che si limitano a dare del "superficiale", del "limitato"; quanto insigni figure come il priore di Bose, Bianco, che dalle colonne della Stampa ha detto poco, da disgustato, ma senza motivare dove Odifreddi sbaglia.
Il fatto è che Odifreddi non sbaglia. Il fatto è che non c’è un passo che sia facilmente attaccabile: il matematico in questione è corretto, sagace, attento. Cita i passi biblici, le encicliche, il catechismo. Diciamocelo: ci sono pochissimi cattolici che hanno letto tanto bene tutti i testi religiosi che ha letto il nostro. Questo è da imparare: prima di parlare ci si documenta per bene. Sennò si tace!
Non si può "battere" Odifreddi sul suo campo. Mi aspettavo che un qualche oscuro prete (piuttosto che un serafico francescano) riuscisse a dire un motto, una frase ad effetto che facesse presa sulla gente, più dei piagnistei dei conservatori che denunciano la mancanza di rispetto o chissà quali altri sdegnosi falli.
Io sono cresciuto ed educato nel cattolicesimo. Leggere un libro come quello di Odifreddi è per me sconvolgente, mi fa ragionare su molte cose. Non ho, da parte degli uomini di chiesa, nessuna risposta. La logica, il raziocinio e la scienza mi stanno aiutando molto di più di una novena o di una lettura dei vangeli nel darmi una spiegazione, una descrizione della realtà.
Se dovessi, da cattolico, pensare ad una risposta a Odifreddi, gli direi le parole di don Pollano, vecchio prete-filosofo, conosciuto nel Monregalese: "Gli atei hanno proprio ragione. Ma hanno talmente ragione che hanno solo quello…".

mercoledì 28 marzo 2007

Guerre



Farei, se potessi, una piccola dedica a qualsiasi politico presidente che ritenesse una soluzione efficace quella di portare la giustizia attraverso la guerra.
Con parole non mie, come spesso, chè altri hanno detto queste cose talmente bene che di più non saprei aggiungere.

In piena facoltà egregio presidente
le scrivo la presente che spero leggerà
La cartolina qui mi dice terra terra
di andare a far la guerra
quest'altro lunedì
Ma io non sono qui egregio presidente
per ammazzar la gente
più o meno come me
Io non ce l'ho con lei
sia detto per inciso
ma sento che ho deciso
e che diserterò
Ho avuto solo guai
da quando sono nato
i figli che ho allevato
han pianto insieme a me
Mia mamma e mio papà
ormai son sotto terra
e a loro della guerra
non gliene fregherà
Quand'ero in prigionia
qualcuno m'ha rubato
mia moglie, il mio passato
la mia migliore età
Domani mi alzerò
e chiuderò la porta
sulla stagione morta
e mi incamminerò
Vivrò di carità
sulle strade di Spagna
di Francia
e di Bretagna
e a tutti griderò
di non partire più
e di non obbedire
per andare a morire
per non importa chi
Per cui se servirà
del sangue ad ogni costo
andate a dare il vostro
se vi divertirà
E dica pure ai suoi
se vengono a cercarmi
che possono spararmi
io armi non ne ho.


Il Disertore (Boris Vian, trad. G.Calabrese)
Cantata da Ivano Fossati.

lunedì 26 marzo 2007

osterie di una volta...

A Carcare, dove vivo, c’era una trattoria che era per me la preferita: "Da Beppe, tavola calda". Oddio, la gente, gli amici, guardavano quel posto con circospezione, per non dire con sospetto. Le tendine, gli arredi, i vetri e il servizio non erano quelli dell’Excelsior. Ma a me piaceva proprio per questo. Si prenotava, per cena, perchè era una questione di cortesia prenotare, per non arrivare all’improvviso. Ma se anche si fosse arrivati in 4 o 5 dopo un primo attimo di imbarazzo si sarebbe ugualmente trovato posto. Il locale, basso e antico, era (ed è) ad un passo dal pontino che è il simbolo di Carcare. Una vetrata con una tendina ingiallita riparava da sguardi indiscreti gli avventori. In esposizione c’era uno di quei banchi frigoriferi con ampia vetrata, di quelli usati nei negozi da rosticciere per esporre le pietanze. Riposavano, in questa teca, affettati, formaggi, pesci in carpione. Due cose erano avvenute per cui il locale era diventato mitico: era stato visto un gatto dentro la vetrina che ragionava se addentare formaggio o pesce e un’altra volta dalle tendine era spuntata una mano che brandiva una paletta per le mosche: aveva fatto giustizia sommaria di una squadriglia che stanziava oramai da troppo tempo in vetrina, e si era repentinamente ritirata, lasciando le carcasse al suolo, ovvero sul fondo del banco frigo. Non è detto che queste cose siano successe per davvero, ma davano al locale un’aura misteriosa ed epica che non sfigurava col resto. Superato un corridoio buio si entrava in un vestibolo adornato di un paio di tavolini con regolare tovaglia a quadroni, stufa a legna perline di pino alle pareti. Mi pare di ricordare anche lo sguardo attonito di qualche martora o furetto imbalsamati appesi sul muro. Oltre a questo vestibolo (zona riservata agli abitueè del locale, ai giochi di carte, ai discorsi di politica), oltre un arco a tutto sesto imbiancato, c’era la vera sala da pranzo: due tavoli più lunghi, il soffitto basso, fotografie ingiallite alle pareti ritraevano cantate posteriori a mangiate e bevute luculliane. In primo piano un figuro alzava il bicchiere con le fauci spalancate, mostrando la desolazione di un unico dente. Altri ridevano. Su foto vicine si esibivano funghi epici, cinghiali, galli che fumavano, pupazzi di neve colossali. Ci si sedeva ed in breve arrivava Beppe con la sigaretta accesa. Faceva un sommo elenco di quel che c’era (grossomodo pasta, ravioli, braciole, salsiccia, pollo, insalata, patate) e del vino disponibile: dolcetto o barbera. Mentre illustrava si fermava a considerare il piatto vuoto sul vostro tavolo. Stupito lo prendeva in mano, si spostava un po’ più sotto il neon, lo grattava appena con l’unghia, sorrideva soddisfatto e lo rimetteva in tavola. Prendeva gli ordini, spariva e a breve tornava per farti assaggiare una pancetta di un suo amico, un salame di un altro, una formaggetta di una sua parente. E intanto I ravioli cuocevano. Al momento del conto Beppe si imbarazzava pure un po’: "Eh, cari ragazzi, mi tocca chiedervi 11.000 lire perchè avete preso il barbera…" (parliamo di tempi nei quali in pizzeria si spendevano ALMENO 20-25.000 lire).
Io ci andavo con vera gioia, in questo locale. Non NONOSTANTE non fosse pulito alla perfezione, ma proprio perchè non lo era, proprio perchè era a misura d’uomo, casalingo e antico come mi meritavo che fosse il locale dei miei "sogni". Era una "piola" un "osto" all’antica. Una sera il padrone mi aveva detto di aver scoperto che quel locale era là perlomeno dal ‘700. Ma forse anche da prima. Ma adesso era costretto a chiudere. Un po’ per l’età e un po’ perchè per adeguarlo alle nuove norme sarebbe stata una spesa esagerata. E ora non c’è più. Al suo posto (o meglio, di fronte) hanno aperto un ristorante molto bello dove, si dice, si mangia benissimo: elegante, ordinato, dove a buon patto si pranza degnamente. Ma io, nonostante tutto, preferivo quell’altro.
Infine vorrei augurarmi di trovare un altro locale come "Da Beppe" in Valle Bormida, per fare questo ho bisogno di visitarne molti con una degna compagnia. Ebbene, il mio amico specialista di gastronomia e varie altre cose ha un contrattempo, appena lo avrà risolto ci metteremo in caccia… Vi faremo sapere!

domenica 25 marzo 2007

La scienza è trattabile?


Mina, sulla Stampa di oggi, commenta un fatto accaduto a Siracusa: un genitore ed un alunno hanno picchiato un insegnante a causa di un brutto voto. Mina dice cose corrette nella maniera giusta. La scuola riflette la società: non è colpa del figlio che non studia, se prende 4, ma è colpa dell’insegnante che non lo aiuta. Cerchiamo sempre di attribuire responsabilità vicine o lontane ma comunque diverse da noi: siamo diventati abilissimi in questo.
Mi piace aggiungere una cosa appena sfiorata da Mina: si è fatto strada in questi anni il concetto che ognuno abbia necessariamente il diritto di dire la sua su qualsiasi argomento. La concezione si è tanto diffusa da diventare un’istanza dei medici omeopati verso la Legge, avverso Piero Angela: quest’ultimo, dicevano gli omeopati, ha pubblicamente detto che l’omeopatia non ha nessuna prova scientificamente apprezzabile in favore del suo funzionamento, anzi, nelle soluzioni omeopatiche spesso non c’è nulla, e tutto questo senza contraddittorio. Ecco, appunto: non c’è contraddittorio nella scienza, c’è la dimostrazione. Ad oggi, con quello che sappiamo e che ci consente di far funzionare i processi chimici industriali, l’omeopatia non ha consistenza scientifica. Non è una opinione: è una verità scientifica. Insomma, rassegnamoci, la scienza non è trattabile, come la politica o come le opinioni diffuse nei programmi televisivi pomeridiani. Se si afferma che non si può scendere al di sotto dei -273° C (zero assoluto) c’è il suo bel motivo. Se uno dice di saper raggiungere i -300° mente. Perché? Chiedetevelo. Se non lo sapete scrivetemi che ve lo dico. Ma la scienza è metodo, studio, applicazione. Non, certamente, libera disquisizione basata su impressioni personali. Occorre quindi construirsi un portafoglio minimo di competenze per capire quello che ci propinano pubblicitari o politici e ragionarci sopra. Parimenti si possono sostenere gli stessi limiti di discutibilità in altri ambiti: un nazista non ha diritto di parlare, perché la democrazia (pur con tutti i suoi limiti) è meglio del nazismo. O no?

sabato 24 marzo 2007

parole in cucina


Quando cucinano creano. Non mettono: dispongono. Non servono: impiattano. Non passano in padella ma spadellano (e la cosa mi ha sempre ricordato l’atto del sottrarre ben altra padella dal letto di un anziano ammalato…). Ti spiegano che è fondamentale il territorio e lo dicono con una protervia che neanche un generale nazista quando parlava della Polonia prima del ’38. Fanno cucina povera con astici, mazzancolle, pasta tirata a mano, aglio di trondedio, pomodorini coltivati al sommo dell’Etna. Io non sopporto tutto questo manico che fanno i moderni cuochi mentre scaldano qualcosa. Penso alle mie zie, a mia madre, a mia suocera, lo hanno fatto e lo fanno: preparano un pranzo per otto, dieci persone senza fare una piega. Insalata russa, peperoni con l’acciuga, uova ripiene, ravioli e tagliatelle, bollito e arrosto, patate e carote. E il budino. E apparecchiano e sparecchiano e lavano i piatti. Cosa dovrebbero dire loro? Che lingua dovrebbero usare per descrivere quel lavoro? Il grande cuoco fa tre (3!) ravioli e li condisce con un sospetto: spadella, impiatta, dispone. Poi mette un ciuffetto di erba sbrodolina… Ma va’ a quel paese, va! Le nostre signore facevano kilogrammi di ravioli senza colpo ferire, usando quello che avevano. Perché l’altro miracolo era questo: senza negozi e senza supermercati, senza aglio di Castelrotto o pomidoro di Valburetta, ma con l’aglio del proprio orto, con le verdure di stagione, le uova di un vicino di casa che non avevano bisogno di timbri e autorizzazioni. Tornate a scuola di umiltà, e soprattutto, impariamo a fare da mangiare in casa nostra senza badare agli sbrodolamenti, facciamoci spiegare dalle nostre madri come si fanno i ravioli. Altro che mazzancolle…

Le case nel bosco



Oggi ho terminato la ripulitura grossolana di due meli, che qui (a Giusvalla) sono ancora fermi e poi ho fatto una passeggiata portandomi dietro la videocamera nuova. Sono salito su per la collina dietro casa, verso la cascina di Linardin, disabitata da una trentina d’anni. Ho filmato la casa, il silenzio, le erbe mosse dal vento. Le finestre sfondate colorate dai mattoni rossi, dalle pietre, dai licheni che le decorano. Il legno di castagno all’aperto diventa grigio, a tratti bruno di tannino cavato in superfice da qualche goccia d’acqua piovana. Eppure, pensavo, questa casa così misera ha molto da raccontare. Nelle sue due stanze si sono avvicendati generazioni di contadini. Sono nati e morti chissà quanti boscaioli, agricoltori, carbonai. Quanta strada hanno fatto verso la Francia, la Riviera, la città. Come avranno visto i soldati francesi, tedeschi, americani, partigiani passare di qui?
Sotto ci sono le larghe fasce che mi pare di ricordare coltivate a ortaggi e fieno, a rotazione. Bagnate con l’acqua della bialera. Oltre quel solco erano della mia famiglia, ma poi, di successione in successione, sono passati a qualcuno che non conosco, e ora le erbacce, le robinie, le prugne selvatiche se le riprendono. Ma quanta fatica per strappare un campo ad un fianco di collina?
Sopra la casa c’era una bella costiera esposta al tramonto. Poca terra piuttosto chiara con ampie bancate di marna e un conglomerato friabile, composto da tanti ciottoli tondi. Ci sono molte roveri grandi e alte. Ma le robinie si fanno avanti e prendono il posto dei pochi pini quasi tutti crollati al suolo, forse per malattia, forse per incapacità a radicare in questa poca, tenera terra. La strada che sale nel bosco è diventata un rittano asciutto. Neppure un trattore potrebbe salire fino da Baciura. A piedi ci si arriva in un attimo. Come tutte le case era stalle di sotto e cucina e camera di sopra. Il tetto ha ceduto sotto le impietose gocce d’acqua. E’ crollato, portandosi dietro muri, arredi, solai. Solo il fienile è ancora in piedi.
Tutto intorno si leggono benissimo le fasce, i solchi, i sentieri. Anche se oramai tutto torna al bosco. Di lato alla casa la marna che affiora impedisce alle erbe e agli alberi di attecchire e di crescere. Nelle stagioni più giuste, fra i ginepri e i pini nani ci sono i sanguini. E sulla costa, sotto i cerri, i funghi neri, che soddisfano ancora oggi mia madre. Ho filmato anche questa casa. Pochi fotogrammi, qualche minuto. Inquadrature fisse di finestre, scale rotte, tetti sfondati. Ho pensato che continuerò a raccogliere queste istantanee delle case intorno alla mia, case che ricordo abitate o appena abbandonate ch’ero bambino, e ora quasi diroccate. Io mi ricordo quasi sempre i nomi e le storie delle persone che vi hanno abitato, è una traccia che devo lasciare, non so a chi o perchè, forse perchè lo sento come un dovere, come dire a quelle persone: "Tutto sommato non hai vissuto e faticato invano, vedi: io mi ricordo di te", e fare questo perchè infine mi sento anche figlio loro.